Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  giugno 03 Domenica calendario

Cosa si prova a essere polpo

Non sono mai mancate accese polemiche sull’opportunità di usare una terminologia mentalistica per descrivere il comportamento degli animali. Lo stesso Darwin non disdegnava l’uso di un frasario antropomorfico, temperandolo però con accurate registrazioni obiettive su quello che gli animali facevano. George Romanes, un suo contemporaneo e seguace meno accorto, è famoso per aver invece dato la stura a una sistematica sovrainterpretazione di vari aspetti del comportamento animale sulla base di un’evidenza di tipo aneddotico, dal suicidio dello scorpione all’azionamento di complicati chiavistelli da parte di cani e gatti per aprirsi la strada dei giardini nelle magioni britanniche. Fu come reazione a questo eccesso di antropomorfismo che Lloyd Morgan introdusse nello studio della psicologia comparata il suo famoso canone, che prescrive di cercare sempre la spiegazione più semplice dei comportamenti, quella che non richiede l’attribuzione di capacità mentali non necessarie. Applicando questa versione etologica del rasoio di Occam, Lloyd Morgan fece notare che lo scorpione non manifesta alcuna tendenza suicida, bensì dirige il rostro su di sé nel tentativo di liberarsi da uno stimolo nocivo; e che l’azione manipolatoria su chiavistelli e manopole dei cancelli da parte di cani e gatti non riflette alcuna comprensione della causalità fisica, bensì un apprendimento meccanico basato su prove ed errori. 
In questi ultimi anni, tuttavia, il pendolo della bilancia sembra oscillare nuovamente verso un uso poco sorvegliato dell’aneddotica. Ne è un esempio il libro di Carl Safina, ecologo statunitense, appena tradotto per i tipi di Adelphi nella nuova collana «Animalia». Il libro ha avuto alcune recensioni entusiastiche. Certamente le pregevoli descrizioni naturalistiche del comportamento di animali che suscitano curiosità come gli elefanti o le orche ha contribuito a questi giudizi. Nondimeno, colpisce che l’autore raramente consideri alternative più semplici per l’interpretazione dei comportamenti di questi animali. Non si tratta di negare il fatto che vi sia continuità nei processi mentali tra le varie specie: infatti, l’uso di spiegazioni semplici è qualche cosa cui gli scienziati debbono aspirare anche per il comportamento umano, così come per quello di qualsiasi altra specie.
Una giustificazione invocata da Safina e da altri studiosi è che il principio di parsimonia di Lloyd Morgan potrebbe ritorcersi proprio contro chi disdegna le spiegazioni mentalistiche. Questo perché descrivere comportamenti sofisticati come quelli esibiti da elefanti e orche nei termini di associazioni tra stimoli e risposte potrebbe risultare molto più farraginoso che non ipotizzare, ad esempio, che questi animali posseggano stati mentali come la «gelosia» o la «tristezza». Tuttavia, in molti casi, la semplificazione che si introduce con l’impiego di termini mentalistici è più apparente che reale. Assomiglia in modo imbarazzante alla concezione per cui dare un nome a un fenomeno equivale a spiegarlo. L’oppio fa dormire, spiega il Primus Doctor al Bachelierus del Malato Immaginario di Molière, perché contiene una «virtus dormitiva». In maniera simile, un elefante aiuta un compagno in difficoltà perché possiederebbe, come noi esseri umani, la capacità di provare «empatia». Per comprendere appieno il comportamento animale è necessario andare oltre queste ipotesi.
Il libro rende un buon servizio alle istanze animaliste con l’argomento che in assenza di evidenze del contrario dobbiamo trattare gli altri animali come se possedessero sensibilità e consapevolezza, per un principio precauzionale. Questo è del tutto ragionevole da un punto di vista etico, ma non è un argomento scientifico a favore dell’idea che gli altri animali siano esseri senzienti. Di fatto, l’unico argomento invocato nel libro di Safina è basato su un giudizio di similarità nei comportamenti: gli elefanti e altre creature sono coscienti perché ci sembrano coscienti. Si tratta di un argomento molto debole, perché sembra suggerire che non appena ci si discosta dalle creature che ci somigliano – nella morfologia e nel comportamento – verrebbe meno la possibilità di attribuire loro lo statuto di esseri senzienti.
A controbilanciare la situazione viene in soccorso la traduzione, imminente per la stessa collana di Adelphi, di un secondo libro, il cui valore scientifico è a mio modo di vedere molto superiore a quello del testo di Safina. Peter Godfrey-Smith, filosofo e appassionato naturalista-sommozzatore, assume come punto di repere per la sua perlustrazione nei territori della coscienza un organismo che ci è alieno da molti punti di vista: l’octopus (o polpo). Carlo Rambaldi non avrebbe potuto fare di meglio. Immaginate una creatura di soli tessuti molli, senza ossa, che può modificare di continuo la sua forma, scivolando attraverso un’apertura di un paio di centimetri anche quando, come nel caso del polpo gigante del pacifico, arriva a pesare quarantacinque chilogrammi e ha un’apertura delle braccia fino a sei metri. Braccia munite di qualcosa come milleseicento ventose, con ciascuna delle quali l’animale può sollevare fino a quattordici chili, e sulle quali una preda può esser fatta scorrere per giungere infine a un orifizio a forma di becco. L’octopus, anche quando è grande, può cambiare molto in fretta oltre alla forma anche il colore, scomparendo alla vista repentinamente. Pure se munito di un sistema nervoso centralizzato, due terzi dei suoi neuroni si trovano sulle braccia, ciascuna delle quali è in grado di agire autonomamente, come se fosse dotata di un proprio cervello separato, per afferrare e manipolare. 
Godfrey-Smith non prova nemmeno ad argomentare che il polpo ci sembra cosciente (e che perciò sarebbe cosciente). Al contrario, sfrutta l’alterità dell’animale per mostrarci come l’evoluzione della consapevolezza possa aver preso strade diverse. Nel caso degli elefanti o delle orche possiamo invocare origini comuni, cioè un antenato in cui per la prima volta hanno fatto apparizione le nostre e le loro manifestazioni di esseri intelligenti e senzienti. Ma l’antenato in comune più prossimo che abbiamo con il polpo risale probabilmente a seicento milioni di anni fa. La coscienza del polpo, se l’animale ne possiede una, potrebbe essere radicalmente distante dalla nostra, ontologicamente diversa. 
Godfrey-Smith forse trascura qui un aspetto, e cioè che indipendentemente dalle contingenze storico-evolutive che hanno foggiato il sistema nervoso di animali tanto diversi vi possano essere dei vincoli di struttura, inerenti, ad esempio, alle proprietà del mondo fisico e ai processi di sviluppo biologico, che limitano le possibilità di diversificazione delle menti, rendendole tutto sommato simili anche quando hanno origini filogenetiche molto distanti. Ad esempio, invertebrati come i cefalopodi, ma anche gli insetti, sembrano mostrare fenomeni di completamento visivo illusorio dei contorni, come accade agli esseri umani e agli altri vertebrati. Presumibilmente vivendo anche loro in un mondo che è fatto per la gran parte di oggetti opachi, che si occludono l’un l’altro a seconda del punto di vista, essi hanno, come noi, l’obbligo di possedere meccanismi per l’interpolazione dei contorni che nelle scene naturali si trovano a essere qua e là interrotti. 
Non convince del tutto neppure l’idea che Godfrey-Smith sembra sostenere di una gradualità dell’esperienza cosciente. Se per coscienza intendiamo il fatto di possedere un modello interiore del mondo esterno, allora, certo, è pacifico che creature diverse possano avere modelli diversi, e che questi siano più o meno sofisticati, nel senso che tengono conto di differenti aspetti dell’ambiente. Ma se ci riferiamo all’avere sensazioni, allora la coscienza è davvero una proprietà tutto-o-niente nel momento in cui viene riferita a un qualche particolare aspetto del modello interiore: quella stimolazione luminosa si sente? Si prova qualcosa a gustare amaro? E fa male (si sente male) alla puntura di una medusa?
A differenza di Safina, Godfrey-Smith formula ipotesi e cerca di ricostruire alcuni passi cruciali nell’evoluzione degli animali e dei sistemi nervosi che possano rendere conto dell’evoluzione delle menti e della comparsa della coscienza. Dalla sensibilità dei batteri alla comunicazione tra i diversi distretti cellulari negli organismi pluricellulari, fino ai meccanismi che controllano il ciclo tra percezione e azione, conduce la sua esplorazione in modo accurato e guardingo, come un sommozzatore esperto, che sa di muoversi in un ambiente seducente, ma ricco d’insidie.
***
Carl Safina, Al di là delle parole, Adelphi, Milano, pagg. 687 € 32
Peter Godfrey-Smith, Other Minds. The Octopus and the Evolution of Intelligent Life. Harper & Collins Publishers, London, £20