Il Sole 24 Ore, 3 giugno 2018
Aspettando Proust del cavolo
«Non so proprio come farla, sta roba del cavolo... non so se cominciare dal fondo o dal principio, in altre parole non so se il buco del culo proustiano vada considerato l’entrée o la sortie». Siamo alla fine del 1930 e a parlare è Samuel Beckett (in una lettera all’amico Thomas McGreevy), che sta lavorando al suo Proust, un corposo studio critico che darà alle stampe nel 1931. Il rapporto fra il drammaturgo irlandese e lo scrittore francese è sin dall’inizio problematico, curiosamente improntato ad un richiamo molto scatologico. In un’altra lettera coeva, Beckett parla delle sue letture proustiane «al cesso», e molti anni più tardi, in un’ulteriore missiva del 1936 (sempre a McGreevy), tirando in ballo le «masturbazioni mentali» di Huxley, accenna ad un «aspermatismo mentale» riferito alla propria scarsa produzione letteraria in quel periodo e alludendo alla «diarrea» della Ricerca del tempo perduto. In altri casi s’immerge (letteralmente) in una serie di riferimenti “coprofili” argomentando sui canali creativi della scrittura (non solo la sua). Ed ecco che siamo sommersi da immagini di carta igienica e, a proposito dell’autore dell’Ulisse, per esempio, Beckett, beffardo, accenna ad un’inequivocabile «puzza di Joyce» in un suo racconto intitolato Sedendo and Quiescendo, nonostante tutti i suoi sforzi di dotarlo dei «suoi personali odori». Del resto, in una lettera del 1930, proprio James Joyce – di cui Beckett fu segretario e frequentatore negli anni parigini sino al 1939 – viene accostato a Poe, Goethe e Carducci, ma solo per ricordare che tutti questi grandi autori «sarebbero onorati se Joyce gli firmasse un pezzo di carta igienica».
Queste, e altre salaci considerazioni, popolano l’epistolario di Samuel Beckett (ora curato impeccabilmente da Franca Cavagnoli per Adelphi, primo volume dal 1929 al 1940). Beckett è uno dei massimi scrittori del XX secolo, ormai notissimo per i drammi dell’assurdo, da Aspettando Godot (1948-52) a Finale di partita (1956) a Giorni felici (1961), nonché per la trilogia di romanzi Molloy, Malone muore, L’innominabile (scritti tra il 1951 e il 1953). La sua visione del mondo ritrae con spietatezza l’incapacità di comunicare dell’uomo moderno, devastato dai traumi della guerra, imprigionato nei vuoti rituali quotidiani che registrano solo il nulla delle attese e la distruzione degli ideali dell’umanità; un uomo moderno divenuto “ostaggio” del nonsenso e dell’incapacità anche solo di “concepire” una qualsiasi forma di salvezza.
Le lettere di Beckett, premio Nobel 1969, spaziano fra l’Irlanda e la Germania (quella già nazista che lo disgusta), ma hanno al centro una Parigi effervescente: quella della fine degli anni trenta vissuta da Hemingway e dal Joyce esule “dorato” tra alberghi di lusso e suite millantate al colmo, finalmente, di quella fama che aveva tanto agognato negli anni miserandi di Trieste. Stilate in inglese, francese e tedesco (aveva anche studiato l’italiano al Trinity College di Dublino), con la loro minuziosa calligrafia quasi illeggibile che condivise con quella di Joyce, ugualmente minuta ma certo più convulsa, le lettere di Beckett illuminano le sue frequentazioni, le sue insofferenze, i suoi propositi intellettuali (scrisse nel 1936 a Ejzenštejn a Mosca per iscriversi alla sua Scuola statale di cinematografia, senza ottenere risposta), le sue delusioni come autore emergente, e le sue prime depressioni (va in analisi nel 1934 dallo psicanalista britannico Wilfred Bion, collegato al prestigioso Tavistok Centre per malattie mentali di Londra).
Entrando nella dimensione intima dello scrittore, apprendiamo della sua relazione con Peggy Guggenheim (che lo chiamava Oblomov, citando l’omonimo romanzo di Gon?arov) e dell’impreciso affaire con Lucia, la figlia problematica di Joyce. Aveva conosciuto Joyce proprio a Parigi, presentatogli dal comune amico McGreevy, mentre era indaffarato a produrre Murphy, il romanzo che abbina la follia al gioco degli scacchi, e aveva difficoltà a trovare un editore (uscirà poi nel 1938). Joyce, invece, aveva già ultimato la parte seconda de La veglia di Finnegan, e cercava qualcuno così “sconsiderato” da riuscire a correggerne le bozze. Ne nacque una frequentazione che durò fino al trasferimento dei Joyce a Zurigo, nel 1940 dopo l’occupazione nazista della Francia. E che causò un’infatuazione da parte di Lucia, che produsse avances inequivocabili da parte della giovane sfortunata donna, già affetta da una mania depressiva che la porterà in manicomio. «Lucia è a Grosvenor Place con sua zia e vuole vedermi», scrive in una lettera a McGreevy nel 1935. E aggiunge, forse anche un po’infastidito, «qualunque cosa significhi... io non ho fatto niente... salvo qualche dètour», lasciandoci nell’ambiguità di questa parola francese, che evoca i suoi tentativi di scansarla e qualche “tergiversazione” nella conduzione del rapporto.
Nelle lettere di Beckett, infine, è presente – sullo sfondo – un costante disagio di vivere, attribuito al suo proverbiale “fastidio” per la conversazione. Scrivere è molto meglio che parlare.
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Samuel Beckett, Lettere (1929-1940), traduzione di M. Bocchiola e L.M. Pignataro, cura di Franca Cavagnoli, Adelphi, Milano, pagg. 528, € 50