Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  giugno 03 Domenica calendario

«Sono un artista pop un po’ incosciente». Intervista a Fabrizio Moro

Forse non se ne rende conto, ma questo è il suo anno fortunato: il 10 febbraio ha vinto il Festival di Sanremo con Ermal Meta – cantando Non mi avete fatto niente – il 12 maggio si è piazzato quinto all’Eurovision Song Contest di Lisbona (sempre con Meta), il 16 giugno terrà il suo primo concerto in uno stadio, l’Olimpico di Roma, la sua città. Nato nel quartiere periferico di San Basilio 43 anni fa, due figli piccoli – Libero e Anita – Fabrizio Moro (il vero cognome è Mobrici) è in carriera da 22 anni (il singolo d’esordio Per tutta un’altra destinazione è del 1996, il primo successo Pensa del 2007), e passo dopo passo sembra avercela fatta a modo suo, senza scorciatoie o furbate maldestre. 
Lo stadio per chi fa il suo lavoro sembra ormai una tappa obbligata: cos’è, una specie di medaglia? 
«Di sicuro è un traguardo. Nel mio caso, però, è anche un problema».
Perché?
«Non riesco mai a godere di quello che ho. Sono ansioso e perfezionista, e vorrei sempre di più. All’Olimpico canterò per circa 22 mila persone, Curva e Distinti, ma sto già pensando al prossimo concerto, quando potrò allargarmi a tutto lo stadio».
Una cosa alla volta.
«Certo. Guardo così avanti perché sono arrivato fin qui solo con le mie forze, senza sconti né regali. Non ha idea di quante porte in faccia dal sistema abbia preso, io».
Adesso però ne fa parte: ha vinto il Festival, fa dischi, canta allo stadio. 
«È vero. Ma se ci penso la cosa mi dà fastidio. Non mi va di essere incasellato. Sono fatto così. L’ho messo anche nel mio romanzo».
Ne ha scritto uno anche lei?
«Sì. È la storia ambientata negli anni 90 di tre giovani amici nati e cresciuti a Guidonia. Uno di loro due muore e gli altri due sclerano. Innamorati della stessa ragazza, decidono di partire per l’America Centrale. Abituati alla vita semplice di periferia si ritrovano per la prima volta all’estero a fare esperienze di ogni tipo».
Come finisce?
«Non lo so. Devo ancora scrivere il finale. Seguo l’istinto».
L’editor che le dice?
«Non accetto consigli quando scrivo, altrimenti la verità va a puttane. Dovevo pubblicarlo quest’anno, poi c’è stata la sorpresa Sanremo e non ho avuto più tempo. È successo tutto in maniera strana».
Che vuol dire?
«Da tempo pensavo a Il mio nome è mai più del ’99, il pezzo di Ligabue, Jovanotti e Piero Pelù contro i bombardamenti in Kosovo. Mi piaceva l’idea di fare qualcosa in tre. Poi un anno fa, pochi giorni prima del mio concerto al Palalottomatica di Roma, c’è stata la strage a Manchester durante lo show di Ariana Grande. E allora ho pensato di coinvolgere due colleghi. Al primo, bravo e famoso, ho chiesto un appuntamento. Ermal l’ho visto subito».
E quindi?
«Quando gli ho raccontato la mia idea di fare un pezzo contro la violenza, ha accettato subito dicendo che avremmo dovuto farlo solo noi due: con le nostre facce avrebbe avuto più incisività. E così è stato».
E l’altro?
«All’altro non ho mai detto nulla».
Chi è?
«Neanche sotto tortura farò il suo nome».
Insisto.
«Solo se spegne il registratore».
Non esiste.
«Non parlo».
La canzone com’è arrivata a Sanremo?
«Non volevo andare perché non avevo un nuovo album pronto, ma Baglioni l’ha saputo, l’ha sentita, e ci siamo ritrovati in gara. È stato tutto sorprendente, anche la mia pazienza. Dividere tutto con Ermal è stato curioso e piacevole».
Citando la canzone che ha vinto il Festival, chi le ha fatto qualcosa e le ha anche lasciato i segni?
«Tanta gente. Ne ho fatte di tutti i colori. Se ci ripenso mi sembra di avere 80 anni. Comunque direi sicuramente mio padre. Con lui adesso ho un rapporto splendido, ma anni fa è stata davvero dura. Calabrese, chiuso, integro, contadino, ha fatto di tutto per non farmi seguire la mia strada. Per me voleva il posto fisso, la tranquillità. Io il contrario: non volevo regole, volevo suonare, vedere il mondo Volevo improvvisare, cosa che lui non ha mai fatto in vita sua».
Come vi siete ritrovati?
«Quando io sono diventato padre, e lui nonno, ho scoperto un omone sensibile. Vederlo a quattro zampe con il nipote in testa, mi ha aperto gli occhi e mi ha fatto capire meglio chi è. Poi il mio primo amore, che ha segnato i miei rapporti con le donne. Dipendevo da lei, ero fragilissimo, e mi lasciò. Per me fu un trauma. E poi la morte del mio più caro amico».
Droga?
«No. Aveva 23 anni e forse era l’unico del nostro gruppo a essere pulito. Noi ci impasticcavamo, lui andava in moto. Velocissimo. Troppo. Ecco, queste cose mi hanno segnato. Negli ultimi tre-quattro anni, però, ho fatto pace con tutto e tutti, cosa che per me rappresenta una grande conquista. Prima ero sempre incazzato. Mi nutrivo di rabbia. Adesso ho imparato, da solo, a conviverci e convogliarla in maniera positiva. Per esempio, sul palco. Certo, quando vedo quelli con i pregiudizi...».
Tipo?
«Moro è quello che va a Sanremo, è un cantante pop, non lo voglio neanche sentire».
È un cantante pop o no?
«A volte sono pop, altre rock, altre addirittura punk. Sono un artista eclettico. Faccio quello che mi pare. Direi un artista anarchico».
Più coraggioso o incosciente?
«Incosciente. Non ho mai mollato, anche quando mi licenziavano perché avevo una serata in un club o dovevo portare un nastro a un produttore. Non avevo niente eppure andavo avanti». L’ultima cosa incosciente che ha fatto?
«Sanremo con Ermal Meta».
In generale si sente in credito o in debito?
«In credito. Non ho ancora raccolto quello che mi spetta». 
Cosa non ha funzionato?
«Non lo so. Penso di non essere ancora arrivato all’altezza dei miei sogni. Forse sbaglio a comunicare».
Conti da saldare? Parole importanti da dire ha qualcuno?
«Sì. A tanta gente. Purtroppo non riesco a esprimermi in maniera chiara e diretta i sentimenti. Forse per questo scrivo canzoni».
Il primo della lista?
«Mio padre. A lui dovrei dire tante cose prima che sia troppo tardi. È un problema, questo. Io non so dire neanche ti amo».
Con i figli come fa?
«Trovando il linguaggio adatto, a loro voglio dire tutto».
Anche i problemi con alcol e droga?
«Certo».
La cosa più stupida che ha fatto?
«Ho l’imbarazzo della scelta».
La peggiore.
«Ho rubato una macchina. All’uscita di un rave party all’Acquapiper di Guidonia. Non sapevo come tornare a casa e ho aperto una Fiat Uno. E con gli amici siamo andati via».
Lo sfizio da togliersi?
«Tutto l’Olimpico, ma l’ho già detto, e il Forum di Assago a Milano. E poi il concerto a San Basilio, il mio quartiere. Ci sto lavorando con Ultimo: lo faremo l’anno prossimo». 
Ha sempre problemi di ipocondria?
«Certo. Non sono più paralizzanti come prima, ma li ho. Adesso che mi sono trasferito a Formello il mio vicino è un medico. Mi sopporta ed è diventato un amico».
Si veste ancora a strati con tuta e pigiama sotto i pantaloni perché si vede troppo magro?
«Adesso non più, sono un po’ ingrassato». 
Qual è la cosa da non fare mai sul palco?
«Bere tanto alcol. Fino a tre anni fa avevo il vizio di mettere vicino alla cassa della batteria 3-4 bottiglie di birra. Mi piaceva sentirmi un po’ brillo. All’Alcatraz di Milano, però, ho bevuto a stomaco vuoto e non ho capito più nulla. Mi sono dovuto fermare».
All’Olimpico, quindi, solo acqua minerale?
«Una birretta. Una sola, però».
Chi ci sarà con lei?
«Ermal Meta, Ultimo e Fiorella Mannoia. Forse anche Gaetano Curreri. Andremo avanti per due ore e mezza. Lì mi passa tutto».