Il Messaggero, 3 giugno 2018
Per capire il governo evitare le etichette
Che quello che ha giurato venerdì sia un governo di destra, anzi il governo più di destra che l’Italia abbia mai avuto dalla fine della seconda guerra mondiale, è un’opinione espressa da diversi osservatori. In questo giudizio non fa che riemergere, ancora una volta, un classico vizio del linguaggio democratico, che da sempre considera sinonime, e dunque intercambiabili, tre parole: brutto, fascista, di destra.
Sfortunatamente un simile uso del linguaggio, (forse) efficace come strumento di propaganda, è invece ben poco utile per comprendere ciò di cui si parla. Se vogliamo capire la natura del neonato governo giallo-verde, la prima cosa da fare è sbarazzarci delle etichette di destra e sinistra. Non perché, nel contratto di governo, non vi siano molte cose considerate di destra e molte cose considerate di sinistra, ma perché la novità sta proprio qui: il governo giallo-verde non è affatto né di destra né di sinistra, nel senso in cui lo sono stati diversi governi di compromesso sperimentati nel passato, ma è, tutto al contrario, sia di destra sia di sinistra.
Il governo che si appresta a nascere è il primo che, di fronte all’alternativa fra tagliare la spesa pubblica per abbassare le tasse (destra) e aumentare le tasse per sostenere il welfare (sinistra), ha l’ambizione di sommare i due sogni della destra e della sinistra: meno tasse e più spesa.
Perché, al di là di qualche progetto a costo zero o a basso costo, sono questi i piatti forti del menu di governo: il piatto di destra ambisce a sterilizzare l’aumento dell’IVA e ad abbassare le aliquote fiscali su famiglie e imprese (slogan: flat tax), il piatto di sinistra ambisce ad aumentare la spesa pensionistica e le misure di reddito minimo (slogan: abolire la Fornero, reddito di cittadinanza).
È il caso di sottolinearlo: un governo additivo, che vagheggia esplicitamente più spesa e meno tasse, non si era mai visto in tutta la storia repubblicana. Fanno benissimo, dunque, i protagonisti a chiamarlo governo del cambiamento: più diverso da quelli del passato non si può. E fanno altrettanto bene gli osservatori sbigottiti da cotanta novità a chiedersi: dove prenderanno i soldi? Non è, per caso, che la soluzione sarà di aumentare ancora il debito pubblico, prendendoci il rischio di un’uscita più o meno indolore dall’eurozona? Di fronte a questa entità nuova possiamo dividerci in tanti modi, a seconda delle nostre inclinazioni politiche. Io trovo più utile, invece, cercare di immaginare, concretamente, che cosa potrebbe succedere, e quali siano gli ostacoli che il programma additivo potrà incontrare. Azzardo dunque qualche previsione, consapevole del detto dell’indimenticabile Gianni Brera: non sbaglia previsioni solo chi non ne fa.
Prima previsione. Il governo non verrà travolto dalla irrealizzabilità dei suoi programmi, come sognano molti oppositori, certi che la nave dei sogni non potrà che andare a sbattere contro l’iceberg della realtà; più verosimile è che preferisca sopravvivere ridimensionando, e soprattutto spostando avanti nel tempo, le sue promesse più costose. Più che puntare a realizzare il contratto in tempi brevi, Di Maio e Salvini si preoccuperanno di dare subito qualcosa, almeno qualcosa, ai propri sostenitori. Fra le due promesse più costose, meno tasse e più spesa pubblica, penso che almeno nel breve periodo a essere sacrificata sarà la flat tax. Questo per vari motivi: il cosiddetto reddito di cittadinanza costa molto di meno della flat tax e può essere facilmente modulato nel tempo, basta mettere un po’ più di soldi sul reddito di inclusione (già avviato dal duo Renzi-Gentiloni) e ribattezzarlo reddito di cittadinanza; sul versante fiscale c’è già da disinnescare la bomba a orologeria dell’aumento Iva, gentile omaggio dei governi precedenti; e infine: se vuole accampare meriti con il suo elettorato, Salvini ha a disposizione diverse misure altamente simboliche e a bassissimo costo, da un giro di vite sugli sbarchi (blocco navale?) a una legge sulla legittima difesa.
Seconda previsione. I guai cominceranno l’anno prossimo, quando verrà meno il Quantitative Easing della Bce, Mario Draghi esaurirà il suo mandato, e si vedrà il vero valore dello spread, un punto su cui molto opportunamente ha attirato l’attenzione Mario Monti nei giorni scorsi. Nessuno sa con esattezza come i mercati valutino l’affidabilità finanziaria dell’Italia, ma quel che è certo è che, fino a oggi, i rendimenti sono stati tenuti artificialmente bassi dal Quantitative Easing (QE) della BCE. Quando questo intervento cesserà i rendimenti subiranno inevitabilmente uno spostamento verso l’alto. Giusto per dare un ordine di grandezza, nei primi 4 mesi dell’anno l’indice di vulnerabilità strutturale dei conti pubblici italiani, che misura il giusto rendimento dei nostri titoli decennali (indice VS, elaborato dalla Fondazione Hume) si aggirava intorno al 3.3%, mentre i mercati si accontentavano di meno del 2%. Se attribuiamo questa differenza, pari a circa 150 punti base, al Quantitative Easing, dobbiamo concludere che il vero spread, ossia quello che avremmo avuto nei giorni scorsi in assenza del sostegno della Bce, non sarebbe stato di 320 punti base, ma si sarebbe aggirato intorno a quota 480, vicino ai livelli dei momenti più drammatici del biennio 2011-2012.
Terza previsione. Proprio perché hanno promesso cose diverse, e temono di deludere i rispettivi elettorati, Di Maio e Salvini saranno sempre in tensione fra loro per decidere in che cosa convogliare le poche risorse disponibili. Logica vuole che, fra i due, a prevalere sia Di Maio, che ha il doppio dei voti e le cui promesse costano la metà. Bisognerà vedere se, messo un po’ all’angolo, Salvini non preferirà rompere il contratto e riprendersi il ruolo di leader del centro-destra, ammesso che questa espressione non sia nel frattempo diventata vuota.
Quarta e ultima previsione. Il Capo dello Stato avrà il suo daffare, e verosimilmente non si tirerà indietro. È infatti probabile che, non riuscendo a trovare le coperture che servono, Di Maio e Salvini provino a convincere il ministro dell’Economia a varare una finanziaria espansiva, ovvero a fare ulteriore debito pubblico, in più o meno aperta violazione dell’articolo 81 della Costituzione, che impone il pareggio di bilancio. A quel punto bisognerà vedere che cosa farà Mattarella, ma è difficile pensare che, dopo aver avuto la fermezza di rifiutare la nomina di un ministro, il Quirinale si astenga da ogni intervento su un punto assai meno opinabile, ovvero il mancato rispetto del dettato costituzionale in materia di entrate e uscite dello Stato. È a quel punto, e solo a quel punto, che la sceneggiata di queste settimane, con dichiarazioni e contro-dichiarazioni sulla permanenza dell’Italia nell’Eurozona, dovrà per forza avere uno sbocco, in un senso o nell’altro. Chi vivrà vedrà.
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