Tuttolibri, 2 giugno 2018
Diario di una carriera: David Leavitt. «Se rileggete i miei romanzi capite perché il ceto medio è morto»
Ci sono autori che segnano un’epoca. David Leavitt è uno di questi. Chi voglia farsi un’idea di cosa siano stati gli anni Ottanta non può fare a meno di leggere i suoi libri (insieme a quelli di Jay McInerney e Bret Easton Ellis, per la verità).
Ballo di famiglia sta al rampantismo, agli sballi, alla fiducia nel dio della Borsa di quegli anni come Le correzioni di Jonathan Franzen sta all’inizio della decadenza del sogno americano, alla miseria umana e culturale di un ceto e di luoghi che sarebbero stati investiti dalla crisi con tutte le conseguenze che sappiamo. Leavitt, oggi 56enne, da trent’anni racconta le famiglie e i rapporti personali in una classe media dove sotto la facciata della normalità c’è il mondo del non detto e si insinuano i temi forti dell’omosessualità, delle malattie, del cancro e dell’Aids. Bene fa quindi Sem Libri a recuperare questo autore di culto, che languiva da un po’ nel catalogo Mondadori, e a riproporre le sue opere (sempre nella traduzione di Delfina Vezzoli) con le belle copertine di Alex Katz. Il primo titolo è Il matematico indiano (ispirato alla storia vera di Srinivasa Ramanujan, un oscuro contabile di Madras che scrive a Godfrey Hardy, luminare di Cambridge, dichiarando di aver risolto un impossibile problema matematico). E sono in preparazione Un luogo dove non sono mai stato (una serie di racconti che sono un po’ il seguito di Ballo di famiglia) e Eguali amori, (dove si esplorano le identità sessuali). In autunno una novità, Il decoro, di cui diremo. Lo abbiamo raggiunto in Florida, dove insegna all’Università. Lei è nato a Palo Alto, California, il covo dei nuovi tychoon tecnologici. Cosa è cambiato?«È un altro mondo. Adesso il prezzo medio di una casa supera i 3 milioni di dollari. Alla fine degli anni Settanta Palo Alto era pieno di vecchi hippy, new-age, poeti e professori. Sulla University Avenue c’erano negozi di dischi, librerie e negozi che vendevano olio di patchouli. Ora potrebbe essere Madison Avenue a New York, o il duty-free all’aeroporto di Dubai, con tutte le boutique del lusso». Come sono questi nuovi miliardari rispetto agli yuppies?«Hanno molti più soldi. Molti di loro hanno frequentato il mio stesso liceo. Cercano di conciliare la loro immensa ricchezza con i valori che gli sono stati inculcati nella giovinezza. Questo potrebbe essere il motivo per cui così tanti mandano i loro figli alle Scuole Waldorf, dove non ci sono computer, né iPhone, né televisioni».È possibile fare un confronto tra l’arroganza del denaro al tempo degli yuppie e quella del Maschio Bianco alla Trump?«Non vorrei disegnare un parallelo. Trump è semplicemente un incubo. Cercare di metterlo in un contesto storico significa minimizzare il male che rappresenta». Lei ha spesso esplorato i temi dell’omosessualità, pensa che la letteratura abbia avuto un ruolo nel cambiare la mentalità, l’atteggiamento e il pregiudizio delle persone?«Credo di sì, ma non così importante come la televisione. Nel mainstreaming, per così dire, dell’esperienza gay e lesbica, la televisione ha aperto la strada. Per quanto possa sembrare strano, Ellen DeGeneres e Will and Grace hanno fatto molto di più in questo senso di qualsiasi romanzo a cui possa pensare». Da adolescente, avrebbe mai pensato che i matrimoni gay sarebbero stati legalizzati?«No. Non riesco ancora a credere che sia una realtà – e io sono sposato!». Con il compagno di una vita, Mark Mithcell.«Però quando ero adolescente io, il movimento per la liberazione gay era più interessato a sfidare il matrimonio come un’istituzione patriarcale repressiva che a militare per il diritto di sposarsi». Come sono le famiglie americane al tempo di Trump?«Ci sono nuovi conflitti generazionali. Per esempio tra genitori pro-Trump e figli anti-Trump. Dopo le elezioni ho passato molto tempo a parlare con i miei studenti. Per molti di loro il grande dilemma era come mantenere una relazione con i genitori, da cui si sentivano traditi». Da dove viene il suo interesse per la matematica e l’occultismo? «È stato accidentale. James Atlas, un vecchio amico, stava curando una serie di libri intitolati Great Discoveries e mi chiese se potevo contribuire ad un volume su Alan Turing. Dovevo concentrarmi sulla sessualità di Turing, cosa che ho fatto». E poi ha anche scritto “L’uomo che sapeva troppo”, proprio sulla vita di Turing, che è stato il suo maggior bestseller. «Non solo. La sorpresa anche per me fu quanto mi fossi interessato al suo lavoro matematico. Così continuai a leggere di matematica e matematici. Questa ricerca ha portato a scrivere Il matematico indiano». Lei e Mark dal 1992 al 2000 avete vissuto in Italia. Un bilancio?«Firenze, Roma, poi nelle campagne vicino a Grosseto. Sono stati nove anni formativi e un giorno forniranno senza dubbio le basi per un romanzo. Dell’Italia ho odiato la burocrazia e la corruzione endemica che questa genera. Ma ora che non vivo più in Italia, mi piace più che mai tornarci da turista». Il nuovo romanzo si chiama “Il decoro”. Cosa c’entra lei con gli arredi? «È qualcosa per cui non ho talento, come per la matematica. Ma al tempo stesso sono sempre stato attratto da certe stanze, decorazioni, mobili e tessuti, carte da parati e lampade, certi stili e periodi. Il mio nuovo romanzo contrappone la carriera dello scrittore e quella dell’arredatore, perché entrambi entrano nella vita di altre persone e, per così dire, creare ambienti in cui queste vite possono essere vissute. La differenza è che mentre la letteratura – almeno in teoria – dura, la decorazione è effimera». Quando scrive, lei sa dall’inizio come finirà la storia?«Mi piacerebbe. Di solito, invece, la trama è la cosa che arriva per ultima nel lungo processo della scrittura». Quando ha capito che avrebbe fatto lo scrittore? «Ho sempre desiderato essere uno scrittore, in parte perché scrivere era davvero l’unica cosa in cui ero bravo». Ha una routine da scrittore?«Anche se provo a seguire una routine, raramente ci riesco. Di solito scrivo di mattina, in un bar. Per natura sono uno scrittore da caffè. A casa mi sento solo. Mi piace avere altre persone intorno a me quando scrivo».La cosa che le piace meno della sua vita da scrittore?«Il mal di schiena». Qual è la cosa più preziosa che possiede?«Un bassorilievo di mia zia, Doris Leavitt Appel (artista e scultrice di una certa notorietà, ndr), che Mark Mitchell, mio marito, trovò completamente per caso in un negozio dell’usato di Gainesville». Se potesse riportare in vita qualcosa dal passato, cosa sceglierebbe?«Il sistema postale pneumatico a Parigi».Ha un autore preferito?«Non posso davvero dire di avere un solo scrittore preferito. Posso dire che la maggior parte dei miei romanzieri preferiti sono inglesi: Penelope Fitzgerald, Muriel Spark, EM Forster, Graham Greene, Ford Madox Ford, Edward St. Aubyn, Evelyn Waugh, mentre la maggior parte dei miei sceneggiatori preferiti sono americani: John Cheever, Grace Paley, Flannery O’Connor, Cynthia Ozick». Un libro che le ha cambiato la vita?«Un libro (in realtà tre libri) che ha cambiato la mia vita in modo significativo è la trilogia Outline di Rachel Cusk: Outline, Transit e Kudos, l’ultimo sarà pubblicato quest’estate. (In Italia è nota per Le variazioni Bradshaw, Mondadori). Qual è il suo piacere più peccaminoso?«Biscotti Digestive ricoperti di cioccolato fondente, in quantità».Se potesse modificare il suo passato, cosa cambierebbe?«Invecchiando, penso molto a questa domanda. La mia conclusione è sempre la stessa: non cambierei nulla, non annullerei nemmeno gli errori che ho commesso, perché se non li avessi fatti, non sarei la persona che sono». Come si rilassa?«Guardando le vecchie sitcom della Bbc che ho già visto migliaia di volte».Qual è la lezione più importante che la vita le ha insegnato?«Oh Signore! Suppongo di dover citare qualcosa che mio padre mi diceva quando avevo delle difficoltà. “Anche questo passerà”. La odiavo. Ma più invecchio, più mi convinco che c’è della verità, in quella frase».Lei è il direttore di “Subtropics”. Cosa l’ha spinta a fondare una nuova rivista letteraria?«È una cosa che avevo sempre voluto fare e la University of Florida dove insegno, mi ha dato la possibilità. Un sacco di lavoro, ma gratificante. Per me la parte più eccitante della pubblicazione della rivista è la scoperta di giovani scrittori esordienti».Lei non è sui social media. Come Franzen odia Internet?«Anche se evito i social media, sono sempre su Internet. Ho un sito personale e faccio costantemente ricerche su internet, leggo riviste e giornali online. I social media mi rendono nervoso. Sono uno che già si distrae facilmente da solo. Se fossi su Facebook o Twitter potrei cadere così tanto in basso nella tana del coniglio che cesserei di avere una vita reale».