Tuttolibri, 2 giugno 2018
«Sono stata schiava di un mormone, ogni giorno aspettavo la fine del mondo»
Senti di questa storia di mormoni che vivono sulle montagne dell’Idaho e ti immagini la famiglia della Casa nella prateria, papà mamma e sette figli vestiti démodé che vivono felici un po’ fuori dal mondo. Invece leggi il libro scritto dalla figlia piccola e ti imbatti in una serie di scene pulp che neanche Tarantino. «Quando entrai dalla porta sul retro», scrive Tara Westover, «vidi la mamma con un coltello da burro in mano che cercava di separare le orecchie di mio padre dal cranio». Un serbatoio di benzina gli è appena esploso in faccia. In effetti l’attività del padre non promette idilli campestri. Non ha una fattoria ma una discarica disordinatissima dove smaltisce rottami di ogni tipo. Un giorno torna a casa con un macchinario spaventoso, il «Trinciante», sorta di forbici di tre tonnellate per spezzare i metalli. E ci mette subito a lavorare i figli. «Cinque minuti dopo Luke aveva un braccio squarciato fino all’osso e correva verso casa in un bagno di sangue». Un’altra volta tocca a un altro figlio, che cade da un’altezza di sei metri per costruire un granaio industriale. «Il papà mosse il braccio del muletto e Shawn cadde giù. Fece un volo di tre metri e mezzo e il suo corpo roteò andando a sbattere di testa contro il muro di cemento e poi a terra per i restanti due metri e mezzo». Un giorno è Tara a schiantarsi la schiena mentre un altro fratello si liquefa la gamba con la fiamma ossidrica. Gli incidenti sono tanti e gravi, anche stradali, tutti si salvano ed è un po’ miracoloso perché nessuno viene portato in ospedale, le cure sono Rescue Remedy e tinture di erbe preparate dalla mamma.
Stranezze di questa famiglia in cui nessuno sa il giorno del proprio compleanno, tutti sono nati in casa e mai registrati all’anagrafe, non si va dal medico né a scuola perché lo Stato è il Diavolo. E se tutto il resto Tara non lo trova così strano – nemmeno che il padre li costringa a fare scorte colossali di conserve per attrezzarsi alla Fine del mondo – la mancanza della scuola la porterà alla ribellione prima e alla fuga poi. E per ribellione si intende che nonostante il padre faccia di tutto per sfiancarla di lavoro in discarica lei si imbarca in uno studio matto e disperatissimo che le farà superare gli esami da privatista in un college locale e vincere poi un dottorato a Cambridge. All’università, durante una lezione di storia, sentirà per la prima volta parlare di «Olocausto», alzerà la mano e, davanti a un’aula incredula, chiederà «che vuol dire?». Naïve, questa studentessa, «oro puro» per un professore che le dirà di sentirsi con lei come Pigmalione. Così Tara prende il PhD e proprio fra i muri secolari di Cambridge scrive questo potentissimo mémoir sulla sua vita in discarica, un romanzo di formazione, di come sia diventata una persona nuova e questa metamorfosi l’abbia chiamata «educazione».Da bambina notava differenze fra la sua famiglia e gli altri mormoni?«Gli altri vivevano in modo diverso, andavano a scuola, dal dottore. Ma io pensavo che avevamo ragione noi, che era strano il loro modo di vivere e il nostro normale. Nel Mormonismo non si applicano per forza le regole di mio padre, era la sua versione a essere particolare».I suoi nonni, invece, facevano una vita «normale». Quando papà e mamma hanno cominciato ad abbracciare questo Mormonismo radicale?«Il primo figlio lo hanno fatto nascere in ospedale e i miei fratelli più grandi sono andati a scuola per un po’. È stato un passaggio graduale, man mano che mio padre invecchiava le sue idee si facevano più estreme. Molti dicono che c’entri col Mormonismo, io penso che fosse mio padre a essere estremo. Ci ho riflettuto e credo che il disturbo bipolare spieghi in parte il suo radicalismo».Ci sono contraddizioni. Vivevate fuori dal mondo ma lei guidava sola per 130 km per andare in città, poi avevate la tv via cavo e pure internet…«La gente normale ha contraddizioni, e così mio padre. Lui non voleva la tv ma adorava The Honeymooners. Non avevamo il telefono e poi, quando il business delle erbe di mia madre ha ingranato, mio padre avrà pensato che il business era importante».Cinema, tv: quando ha visto il suo primo film?«A casa di nonna, a 4-5 anni; roba vecchia, cartoni Disney, ma senza che papà sapesse. Al cinema a 16 anni, Il Signore degli Anelli, anche in questo caso papà non approvava perché era un film “socialista”».L’Olocausto, l’Islam, la schiavitù dei neri. Davvero non ne sapeva niente?«Io non avevo mai ricevuto lezioni di storia, né queste cose son mai venute fuori nelle conversazioni con i miei».Come ha trovato la forza di affrontare questa montagna di cose da imparare?«So solo che a un certo punto volevo imparare. Ho capito che l’istruzione era una mia responsabilità».È molto diretta quando parla delle scarse regole di igiene in casa, anche personali. Mamma non ci teneva?«Io non me ne rendevo conto, quanto a mia madre credo si sia abituata in fretta al nuovo modo di vivere con mio padre, e forse è stato anche un sollievo per lei, cresciuta in una famiglia più rigida». È molto diretta anche su soldi e vestiti. Invidiosa delle altre ragazze?«Ho passato quasi tutta la vita a cercare l’invisibilità, mentre la maggior parte della gente si veste per essere unica. Io ero abituata a un’asticella bassa, ad avere poche cose, ereditate dai fratelli».Suo padre vi preparava alla fine del mondo. Ci credeva?«Sì. Sono cresciuta sentendone parlare continuamente, pensavo che sarebbe successa e ho sempre cercato di immaginare come sarebbe stata».Le violenze di suo fratello, che la trascinava per terra per poi rovesciarle la testa nel water. Pensa che lo Stato, la società, avrebbero dovuto fare in modo di scoprire situazioni come la sua?«È difficile sapere che cosa succede all’interno di una famiglia. I miei genitori lo tenevano nascosto, non vedo come si potesse scoprire». Alla fine, pensa sia stata tutta una questione di malattia, una patologia?«Sì specialmente per mio padre; so che ci amava, voleva la nostra sicurezza ma poi attivamente prendeva decisioni molto pericolose per noi. E questo si può spiegare solo con la malattia mentale».Veniamo a oggi. Visti i suoi brillanti risultati, ha mai pensato che forse quella vita senza distrazioni abbia potenziato certe sue capacità intellettuali?«Quel che penso è che tutto il percorso che ho fatto, anche perdere la famiglia, mi ha reso più seria, capisco cosa è veramente importante per me».Che reazioni ci sono state al libro? Azioni legali?«I miei fratelli e alcuni della comunità sono stati incoraggianti e non me lo aspettavo. Non so il resto della famiglia, ma azioni legali no».Le mancano i suoi?«Sì, credo sia un tipo di relazione che anche in caso di rapporti dolorosi o tossici renda normale sentirne la mancanza e desiderare di averli nella propria vita».Ha conservato la fede? Ancora mormone?«No, ho molto rispetto per loro ma sono agnostica».“Educazione”, ha scelto lei il titolo? Come la definisce?«Sì l’ho scelto io. Non saprei darne una definizione ma sono sicura di ciò che è sbagliato considerare educazione. In fondo è una cosa semplice, una ricerca personale di comprensione, il fatto è che spesso la confondiamo con la scuola, con l’istituzione, così l’educazione diventa qualcosa di passivo. Invece si dovrebbe partecipare di più a quel che si vuole imparare».