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 2018  giugno 02 Sabato calendario

Il Mito della cava

La vita di Michelangelo si è dipanata lunga e inquieta fra i palazzi del potere di Firenze e Roma, ma ha incluso anche diversi anni fra la polvere bianca di Carrara, dove l’artista portò con sé le sue angustie religiose, politiche e famigliari. Dovunque andasse, quel genio misantropo non riusciva a placare le tensioni interiori: detestava i Medici, detestava i Papi, la mondanità, il lusso, l’ottusità del prossimo, persino i vestiti e le buone maniere, salvo poi sentirsi in colpa per la tirchieria che considerava un peccato. Le prolungate permanenze a Carrara possono far pensare che forse lì recuperava un po’ di sollievo dai tormenti. Ma non è così. Anche fra gli umili marmisti, carrettieri e barcaroli – gli artigiani con cui aveva a che fare per ottenere il marmo – trovò il modo di litigare, arrabbiarsi e rimare sempre scontento, fra risentimenti e irrequietezza. 
Michelangelo arrivò per la prima volta a Carrara nel novembre 1497, quando aveva ancora 22 anni. Compì il viaggio in sella a un cavallo, e siccome da Roma sono più o meno 380 chilometri, la galoppata dovette durare circa sei giorni. Avrebbe potuto evitarselo, visto che si era stabilito nella Capitale solo un anno prima, ospite del cardinale Riario, cugino del futuro papa Giulio II, che lo aveva messo con successo al lavoro per sé e i suoi potenti amici. Raffaello avrebbe senz’altro agito così e avrebbe delegato al viaggio uno dei suoi allievi-amici. Michelangelo invece non si fidava mai di nessuno ed era un perfezionista. Ma non solo. L’opera che lo portò per la prima volta a Carrara sarebbe stata collocata nella chiesa più importante di Roma e della cristianità: San Pietro. Si trattava di una Pietà destinata alla sepoltura del cardinale Jean de Bilhères-Lagraulas. Un gruppo scultoreo che doveva rappresentare la Vergine con il Figlio a grandezza naturale per il quale Michelangelo avrebbe ricevuto 450 ducati d’oro, comprensivi delle spese del materiale e del trasporto. Un’impresa su cui dunque non poteva fallire, magari trovandosi a lavorare su un blocco di marmo non adatto che lo avrebbe costretto, come già gli era successo, a mandare a monte l’opera con grande spreco di denaro. A Carrara, il giovane scultore non solo ebbe l’opportunità di scegliere personalmente il marmo, ma anche di conoscerne a fondo segreti e tecniche di lavorazione osservando gli scalpellini. È con loro che Michelangelo compì il suo master. «Stette in quei monti con due servitori e una cavalcatura, senza altra provisione se non del vitto», racconta il biografo Ascanio Condivi. 
Quel primo viaggio gli rivela come sia fondamentale essere presente nella cava e da allora in poi, ogni volta che dovrà affrontare una scultura, risalirà a cavallo e si spingerà fino a Carrara dove passerà anche otto, tredici mesi consecutivi. Ai piedi delle Apuane conduceva una vita spartana e addirittura, nel 1516, la disponibilità di cibo fu così scarsa che Michelangelo dovette procurarsi grano, orzo e altre vettovaglie a Pisa. Trascorreva le giornate nelle cave polverose, fra il sali scendi dei buoi che trainavano le carrate, l’unità di misura trasportata da due buoi aggiogati; esigeva che i marmi fossero «bianchi, netti e belli», «senza peli» (le microfratture); forniva i disegni con le misure desiderate dei blocchi che faceva marchiare con tre cerchi e una M per identificarli; litigava continuamente per ritardi, pagamenti, forniture; organizzava i trasporti con i proprietari di barche. Pretendeva persino, siccome non conosceva il latino, che il notaio redigesse i contratti di acquisto in volgare. 
Mentre a Roma Raffaello conduceva una vita da principe, lui a Carrara si isolava in un’esistenza dura, coperto di polvere bianca. Ma sognava anche – ce lo dice sempre il Condivi – di scolpire un colosso che sarebbe apparso ai naviganti dal mare. Non era solo il desiderio di lasciare un segno di sé in quel ventre dove le sue statue nascevano; ma era anche il sentimento di uomo del Rinascimento che riconosceva nel paesaggio il luogo per eccellenza in simbiosi con l’arte. Quella natura, con le montagne bianche di marmo e di neve, incastonate fra il blu del mare e del cielo, lo incantava e placava per qualche prezioso attimo la sua aspirazione al sublime. Lo stesso motivo per cui oggi dovremmo fermarne lo scempio e rispettare le Apuane come un sacrario dove paesaggio e arte si sono uniti.