il Fatto Quotidiano, 2 giugno 2018
«Solo la fotografia ci fa ancora sentire dei vermi». Intervista a Oliviero Toscani
Un fotografo non è un fotografo: è un autore, un regista, uno scenografo. Così la pensa Oliviero Toscani, riconfermato giudice della terza stagione di Master of Photography (con Mark Sealy ed Elisabeth Biondi), in onda il martedì su Sky Arte.
Ci spieghi meglio…
Un fotografo moderno deve avere più competenze: essere un autore e sceneggiatore; uno scenografo; un regista; un direttore della fotografia; un addetto alla macchina. Ci sono situazioni in cui basta essere cameraman, un semplice esecutore: quando uno si fa un selfie, ad esempio, o – a livello più alto – un reporter di guerra, che ha coraggio, si mette il giubbotto antiproiettile e va sul luogo, dove tutto è già stato messo in scena, dove gli autori sono le Nazioni che si lanciano le bombe, le scene sono i carrarmati che fumano, i morti che urlano, il sangue. La sceneggiatura è già fatta, la scenografia è lì, non serve regia perché c’è già abbastanza drammaticità, occorre solo un cameraman, uno che sia lì e scatti.
A proposito di selfie: più che un talent servirebbe una rieducazione dello sguardo.
Ma questo è proprio lo spirito del programma: la fotografia a livello autoriale. Che riflessioni, che pensieri, che punto di vista, che angolazione avere di fronte a un certo problema. Perché si può fare una bella foto da qualcosa di osceno e una brutta foto da qualcosa di bello.
Nella bulimia d’immagini, il vero artista non rischia di perdersi, di passare inosservato?
Quante parole si sprecano? Quanti scrivono, cantano, fischiano? Non è perché suonano in tanti che Mozart non è più Mozart.
Con lo smartphone chiunque è fotografo: servono ancora i maestri, le scuole, le botteghe, in cui imparare il mestiere, se non l’arte?
Non deve essere così discriminatoria. Fotografare al giorno d’oggi è un modo per esprimersi, come parlare, cantare, scrivere: lo sanno fare tutti. Anzi, mediamente è più facile: la gente è più analfabeta a parlare che a fotografare. Almeno in questo caso si schiaccia un bottone del telefonino e la foto bene o male viene, e sono tutti contenti.
Quanto la tecnologia ha cambiato la fotografia?
La foto è una tecnologia, una tecnica, un sistema per poter comunicare. Ma non è detto che, perché uno fotografa, è un fotografo, così come non si è scrittori solo perché si sa scrivere.
Cosa pensa della post-produzione, il ritocco?
Appartiene alla tecnologia della fotografia, ma il fotografo è colui che ha una visione.
La fotografia è nel pantheon delle Belle Arti?
È l’arte moderna: non è più la pittura, o la scultura. Quella è roba da collezionisti, da musei. Ormai viviamo di immagini fotografiche: il 97% di quello che conosciamo viene da lì. La fotografia è diventata più reale della realtà: è l’arte più importante del momento.
I grandi fotografi li vediamo sulle riviste, non alla mostra: come giudica la contaminazione commerciale?
Per ora sono sui giornali, poi in futuro traslocheranno nei musei. È tutta pubblicità: la Cappella Sistina era lo sponsor della Chiesa; Michelangelo faceva pubblicità per il Papa. I gradi fotografi sono quelli che lavorano per un committente; gli altri sono dilettanti: vorrebbero essere pubblicati, ma nessuno li vuole e allora vanno su Instagram.
Ha un profilo Instagram?
Non ne ho bisogno.
Qual è il rapporto oggi della fotografia con il potere?
Senza comunicazione, il potere non esiste. Gli affreschi erano il potere della Chiesa. Il potere ha bisogno dell’arte e l’arte ha bisogno del potere per esprimersi, ma anche per trascenderlo. La foto fatta per compiacimento e messa su Instagram non serve a niente: è la masturbazione di chi non è pubblicato ufficialmente.
In questi mesi c’è una foto che racconta la politica? Salvini e Di Maio al tavolo, i selfie con la D’Urso…
Quella è tutta roba di provincia, ormai bisogna pensare a livello europeo. Finalmente l’Europa ha potere e sono felice.
E foto significative del passato?
Il bambino morto in spiaggia, i barconi dei migranti…
Molti giornali si chiesero se pubblicare o no l’immagine del bimbo…
Perché il direttore di un giornale ha il diritto di censurare una cosa che lui ha visto e io no? Ho diritto di vedere tutto quello che c’è, nessuno ha il diritto di censurare alcunché.
Neanche le decapitazioni dell’Isis?
Sì, devo vederle. Cioè, posso farne a meno, ma devo avere la possibilità di vedere se voglio. La fotografia è l’unico mezzo di comunicazione che ancora ci imbarazza. Mentre possiamo guardare la decapitazione di Caravaggio e non ci dà fastidio, in fotografia ci sono immagini che abbiamo difficoltà a guardare. Perché sono vere. Perché da quando esiste la fotografia, esiste la memoria storica dell’umanità, e ne siamo imbarazzati. Solo la fotografia ci fa ancora sentire vermi: di fronte alla foto drammatica nessuno ride, mentre al cinema vediamo le cose più oscene e usciamo magari col sorriso.
Quanto hanno contato le radici e la cultura italiana nella sua formazione artistica?
Sono nato qui, non l’ho scelto io. L’Italia qualcosa mi ha dato, anche il modo in cui la roviniamo, sì. È grande l’Italia. È un laboratorio. Mi piace questa anarchia, questa imbecillità.