la Repubblica, 2 giugno 2018
Souvenir? Mai morto, forse risorto
Il Colosseo in miniatura davanti a San Pietro, le gondolete sbrilluccicanti in Piazza San Marco, le piccole torri pendenti di Piazza dei Miracoli: i trofei di cui i turisti si impossessano sull’impulso del momento, condensati di ingenuo surrealismo kitsch, sono ormai sostituti voodoo delle visite ai monumenti. Perché il turista dedica pochi minuti all’attrazione e molto più tempo alle bancarelle: il piccolo feticcio messo in borsa supplirà, dando l’illusione di possedere il monumento visto in fretta e furia. «I souvenir oggi incarnano un paradosso» spiega Gianni De Checchi, segretario di Confartigianato Venezia. «Il turista cinese che ne fa incetta come testimonianza di viaggio, li riporta con l’aereo nella stessa nazione da cui, in massima parte, oggi provengono. Costruiti magari a un centinaio di metri dalla sua abitazione».
Nel mondo globalizzato anche i souvenir, proprio come i turisti, sono in visita. Una visita, però, di affari. È di 304 milioni di euro all’anno – dato della Camera di Commercio di Milano – il fatturato del commercio di chincaglieria, bigiotteria e articoli religiosi che rientrano nell’ambito del souvenir, numero molto sottostimato perché fotografa solo le 1.200 società che hanno depositato l’ultimo bilancio. È un mondo che non conosce crisi. «Tanto che ci sono edicole in posti di richiamo, che pur potendo vendere souvenir solo al 30 per cento, ne fanno il 90 per cento del loro business. In via Cola di Rienzo c’è addirittura L’edicola del souvenir» spiega Fabio Gigli, presidente dell’associazione degli urtisti, gli storici ambulanti del souvenir a Roma, chiamati così per l’urto della cassetta di chincaglieria che portavano legata al collo e che serviva per attirare l’attenzione dei pellegrini fermi davanti a San Pietro. Che si tratti di ricordi o ciapapulver – termine milanese che allude al solaio in cui il souvenir finirà i suoi giorni – quello che conta è acquistare. «Trovandosi in un posto sconosciuto, il turista è spiazzato e può trovare tranquillizzante ripetere una pratica familiare come fare lo shopping. E comunque la caccia al souvenir dà qualcosa da fare» spiega l’antropologo Duccio Canestrini, autore di Trofei di viaggio ( Bollati Boringhieri). «Del resto Susan Sontag, nel saggio Sulla fotografia, notava come i turisti che scattano più fotografie sono giapponesi, americani e tedeschi, ossia vengono da nazioni con una forte cultura del lavoro. E quindi, pur di non sentirsi sfaccendati, fotografano tutto ciò che vedono creandosi una sorta di para-lavoro che li rasserena».
Può più la psicologia, insomma, che l’appeal estetico di questi piccoli mostri incongrui. «Ho visto di persona, all’acquario di Tahiti, turiste americane comprare un vassoio di plastica con due veneri tahitiane di Gauguin che aveva, sul retro, la scritta Made in Italy» spiega Canestrini. «Il rischio di kitsch è alto perché il souvenir è un oggetto esagerato, eccessivo: deve racchiudere in pochissimo spazio – la dimensione dei bagagli oggi è quella consentita dai voli low- cost – una serie di suggestioni eterogenee, compattando più significati tutti insieme» osserva Canestrini. «Nella stessa boule à neige alpina i produttori mettono, per rinforzare la dose di rappresentatività del territorio, la Madonnina di montagna, il cerbiatto, il fucile, la piccozza, la polenta e il boccale di birra. Ed è troppo, non ci può stare». Non è detto, però, che al di là dell’oggetto artigianale pregiato, come il vetro di Murano, le ceramiche di Caltagirone e tanti altri vanti nostrani, il destino del souvenir fatto con materiali non preziosi sia per forza kitsch. «C’è fermento in Italia, tra designer e architetti che vogliono riqualificare il souvenir innestando un po’ di innovazione» spiega Canestrini. «Un esempio è il Museo Euro- Mediterraneo che si sta organizzando per Matera Capitale Europea della Cultura 2019: l’associazione la Luna al Guinzaglio sta lavorando sugli oggetti “poveri” come i pezzetti di legno o sughero che si trovano sulla battigia, che non nascono come souvenir ma, reinterpretati, possono diventarlo».
Anche a Venezia, paradiso del souvenir- patacca, c’è voglia di novità. «C’è un artigianato di giovani startupper che partono dalla tradizione per reinventare i souvenir, anche con tecnologie 3D: gioielli di carta, maschere» commenta De Checchi. «Si trovano nelle botteghe o in spazi dedicati, come al Fondaco dei Tedeschi». Non sulla classica bancarella, dove il made in Italy affoga in mezzo alla concorrenza asiatica. «Prendiamo i rosari: hai voglia a spiegare al turista che “quello è cinese e costa 1 euro, questo è italiano e ne costa 5 perché la qualità è diversa». Il turista risponde: “Ma che mi importa? Io lo devo portare a quelli dell’ufficio”» sottolinea Fabio Gigli. «Il mercato del souvenir è cambiato perché è cambiato il turista: viene a Roma col last minute, dorme al b& b e vuole souvenir da pochi euro come portachiavi e calamite» spiega Gigli. «Chi viaggia può notare in tutte le capitali europee gli stessi portachiavi: cambia l’immagine, ma il portachiavi è lo stesso». Souvenir di nome, déjà- vu di fatto.