Il Messaggero, 2 giugno 2018
Un ricordo di Pannunzio, nobile impresario della cultura
Quando, il 10 Febbraio 1968, il telegiornale annunciò la scomparsa di Pannunzio, molti pensarono ad un sorta di gaffe, o di burla giornalistica. Perché Gabriele D’Annunzio era morto trent’anni prima, e quella notizia sembrava quantomeno tardiva. In effetti l’assonanza era tale da ingenerare il malinteso: per di più tutti conoscevano, almeno di nome, l’eccentrico Vate, mentre nessuno, tranne pochi addetti ai lavori, sapeva nulla del severo e riservato scrittore. L’equivoco fu chiarito quando i mostri sacri del giornalismo italiano spiegarono chi fosse Mario Pannunzio: il fondatore di una rivista – Il Mondo – che aveva raccolto le firme più prestigiose della cultura liberale. Non un solista – disse Indro Montanelli – ma un direttore d’orchestra. Forse nemmeno questa era la definizione esatta. Il direttore controlla e comanda: Pannunzio non comandava, semmai suggeriva. Il suo merito era di individuare i talenti coordinandone le esibizioni. Più che un conduttore, era un grande impresario. Ma un impresario che, all’occorrenza, sapeva suonare tutti gli strumenti.
Era nato a Lucca il 5 Marzo 1910, da padre radicaleggiante e da madre nobile e cattolica. Come molti illustri predecessori, era stato forzatamente indirizzato alla Giurisprudenza, e se ne era allontanato insofferente, rifugiandosi nel cinema e nella pittura. Durante il fascismo era stato chiamato da Leo Longanesi a Omnibus, il primo rotocalco italiano, dove scriveva di critica letteraria: l’unico settore dove l’occhiuta censura del regime consentisse qualche velato dissenso politico. Ma l’esperienza finì nel 1939, quando il Minculpop chiuse la rivista. Si prese la rivincita firmando sul Messaggero l’articolo di fondo del 27 Luglio 1943, dove celebrò la ritrovata libertà dopo la caduta di Mussolini, avvenuta poche ore prima.
ANTICIPAZIONESubito fondò un quotidiano, Il Risorgimento Liberale che raccolse le firme più autorevoli della cultura crociana. Fu l’anticipazione della grande avventura del Mondo, il settimanale che rappresentò, e ancor oggi rappresenta, il meglio del meglio del giornalismo critico. Voleva essere la voce della cultura laica e riformatrice, in un Paese lacerato dal conflitto di dottrine incompatibili, e tuttavia accomunate dall’intransigenza asfittica di una singolare convergenza ideale: il totalitarismo marxista e il clericalismo conservatore, agli antipodi nelle coscienze e nel Parlamento, erano infatti concordi nel considerare l’individuo come un minorenne immaturo, bisognevole di tutela, di indirizzo e se necessario di coercizione dissuasiva. Il Paese, già addormentato da un ventennio di apostolato fascista, rischiava di passare da una retorica belligerante a una passiva rassegnazione servile: altre autorità e altre teste, fossero quelle del Partito o della Chiesa, avrebbero provveduto a pensare per lui.
RISCHIOFu contro questo rischio di narcotizzazione acritica che Pannunzio mobilitò le energie delle menti libere, e le mandò in battaglia. Arruolò giovani ribelli e autorevoli cattedratici, atei, agnostici e credenti, tutti vincolati alla fede comune nella libertà, nella giustizia, e nell’emancipazione sociale, secondo la formula: «progressisti in politica, conservatori in economia, reazionari nel costume». Sfogliando quelle pagine ingiallite, si resta impressionati dalla quantità e dalla qualità dei collaboratori, e ancor più sorpresi dalla capacità di tenerli assieme.
Purtroppo l’impresa si rivelò impossibile. Non è vero che in Italia soltanto la Sinistra sia votata a dividersi e a farsi del male: l’attitudine all’autolesionismo è molto più diffusa nella cultura laica e riformatrice, forse perché le sue fonti sono molteplici, e si trasformano subito in ruscelli impetuosi. I liberali più tradizionalisti si raccolsero attorno al partito di Giovanni Malagodi, gli ex azionisti si divisero in socialisti e repubblicani, i radicali fecero parte per se stessi: vecchie amicizie si frantumarono e si convertirono in diffidenze, litigi e persino polemiche da ballatoio.
L’IMPRESAQuando Pannunzio mori, la nobile impresa era già naufragata. Clericali e marxisti gongolarono di tanto insipiente disordine, auspicando che si traducesse, come in effetti si tradusse, in sostanziale impotenza politica. E quando il compromesso storico sigillò questo patto di mutua assistenza, la cultura liberaldemocratica era già stata ridotta al rango di esausta e insignificante spettatrice.
La caduta del Muro di Berlino avrebbe potuto risvegliare queste menti assopite, e per un istante il cosiddetto tramonto delle ideologie sembrò favorire quel risorgimento liberale che Pannunzio aveva con tanta tenacia perseguito. Nei primi anni 90, soltanto pochi nostalgici credevano ancora nella mitologia grezza del marxismo, mentre lo stesso cattolicesimo, in parte secolarizzato, si apriva coraggiosamente a nuovi orizzonti culturali. Quasi tutti i partiti, anche quelli formatisi sulle macerie frantumate dei vecchi monoliti, osarono proclamarsi liberali.
Naturalmente non era così: l’attitudine critica, la diffidenza vigile, la circospetta prudenza e insieme l’apertura alle stimolanti novità che costituiscono il pane e il companatico del liberalismo non si acquisiscono per decreto o per improvvisazioni casuali. Occorrono pazienza, maturazione, e spesso dolore. E i risultati si videro. Mario Pannunzio non ebbe un erede universale. Ebbe legatari di capacità e di successo, che raccolsero beni isolati, senza quella capacità di sintesi morale idonea a ispirare ampie prospettive di riforma. Al magistero arcigno del partito comunista e alla bigotteria penitenziale della vecchia democrazia cristiana si sostituì l’ambiguo bipolarismo della seconda Repubblica, capace persino di farci rimpiangere il caotico sincretismo delle convergenze parallele, e le altre formule divinatorie dei gerarchi cattocomunisti. Anche i recenti avvenimenti, sembrano relegare in una perpetua quarantena il poco che resta delle aspirazioni di Mario Pannunzio e dei suoi amici. Ma l’ultimo a stupirsene sarebbe proprio lui. Pessimista, come tutti i razionalisti, aveva già previsto la sorte dei liberali: «Ai tempi del fascismo – aveva detto a Montanelli – eravamo pochi e diventavamo sempre di più. Oggi siamo pochi e diventiamo sempre di meno».