Corriere della Sera, 1 giugno 2018
Lucy Liu, un’orientale a Hollywood. Intervista
Lucy Liu ha quegli occhi lunghi allungati orientali così riconoscibili, così «suoi». Ha fascino e gentilezza, 49 anni portati in modo splendido, è più minuta dell’idea che si può avere. La vedi e pensi al duello all’ultima goccia di sangue con Uma Thurman in Kill Bill. Il 22 giugno comincia su Netflix la seconda serie USA in 13 puntate di Luke Cage, dove Lucy è regista, sull’omonimo personaggio dei fumetti Marvel Comics. Mike Colter torna nei panni dell’ex carcerato che acquisisce forza sovrumana e pelle impenetrabile.
E cosa succede?
«Deve uscire dall’ombra per difendere il cuore di New York, affrontando il passato che cerca di cancellare».
I film con i supereroi sembravano una prerogativa di Hollywood, invece…
«Qui però è diverso, è un’immersione nella cultura afroamericana, si sente Harlem, e lo dico sul piano sensoriale: c’è un sentimento impregnato di odori, di sapori per cui vivi il film in prima persona, si sprigiona un senso di empatia e di fiducia per quella cultura».
Lei, da regista e soprattutto da attrice, sembra predestinata ai film d’azione.
Sorride: «Non è stata una mia scelta, mi è capitato, ci sono stata tirata dentro. È andata così perché sono asiatica e la gente pensa che io abbia una credibilità nel kung-fu e nel karate. Quando mi arrivavano le proposte tutte in quella direzione, ho dovuto imparare e allenarmi».
Però nelle arti marziali è del tutto credibile.
«Mi fa piacere che lo pensiate, ma se lo dicevate a Nicole Kidman non so come avrebbe reagito e come sarebbe andata a finire. L’aspetto ironico è che io volevo fare l’attrice, non una sorta di stunt-woman. I produttori hanno pensato: visto che è così brava a fare queste cose, chiediamoglielo ancora. Mi ci sono trovata».
Pensare che conduce una vita spirituale.
«Ho imparato anche questo, non sono cresciuta con una religione specifica in famiglia, mi piace studiare tutto quello che ha a che fare con la fede, ho un’inclinazione naturale su questa materia. Attraverso mia madre, che da cinese ha frequentato una scuola cattolica, mi sono avvicinata al buddhismo».
E il misticismo ebraico?
«L’ho studiato in un progetto in cui ti insegnano a fare meditazione sulle lettere dell’alfabeto aramaico, da cui ognuno trae una sua energia speciale. Io nasco fotografa e artista multimediale, la vivo come una filosofia e come un concetto visivo. Ciò che mi attrae nella fede è il credere in qualcosa di non tangibile. Se ci pensa, c’è un’analogia col mestiere dell’attrice».
Prima parlava del cliché delle arti marziali per un’orientale. Ha mai vissuto discriminazioni nel cinema?
«Sì, ai casting tante volte mi sono sentita dire: sei troppo asiatica, hai un’estetica marcatamente asiatica; oppure al contrario, non lo sei abbastanza. Non riuscivo a collocarmi al punto giusto. Smisi di andare alle audizioni, tanto venivo eliminata».
Le molestie a Hollywood?
«Si è creata un’onda d’urto mondiale, c’è stato un deterioramento dei costumi sul mondo delle donne, non solo al cinema ma in tanti altri ambienti di lavoro. Problemi mai affrontati. Gwyneth Paltrow si è lamentata col suo agente che nessuno prima aveva fatto nulla, ha ragione, non si è lanciato un allarme per troppo tempo, si è consentito che gli abusi proseguissero e questo ha scoraggiato a parlarne. Era David contro Golia».
Un silenzio mortificante.
«Ogni tanto si sentiva un grido, ma era isolato, è difficile quando non puoi portare prove e sei da sola con le spalle al muro. Ora sappiamo come fare, anche se ci sono aspetti che non mi piacciono, tipo il gossip. Per le donne che non sono sotto i riflettori è più complicato, non ci sono ancora fondi per aiutarle».
Anche lei è nata povera.
«Sono americana di prima generazione, nata da genitori che venivano da un Paese profondamente diverso come la Cina. I miei genitori erano poveri, lavoravano duro per mantenere me, mia sorella e mio fratello. In America c’è il detto: hai le chiavi al collo, quando devi provvedere a te stesso, cercare di diventare il prima possibile indipendenti. Apprezzavamo il poco che avevamo, poi come tanti bambini che non avevano niente vedevamo in tv certi cibi e protestavamo: perché non mangiamo quello che si vede lì? I miei genitori con noi hanno fatto a great job, un grande lavoro».