Corriere della Sera, 1 giugno 2018
Le donne, le streghe, gli ebrei: l’inganno del pregiudizio
In una pagina del romanzo L’anno della morte di Ricardo Reis José Saramago rappresenta, con spietata forza poetica, il melenso e vile imbarazzo dell’uomo quando apprende, da una donna con la quale ha avuto una breve relazione, che quest’ultima è incinta. Imbarazzo spolverato di vacua e sentimentale innocenza, come se la cosa non lo riguardasse veramente. Adamo – scrive Saramago – prende la mela da Eva, la morde e gliela restituisce subito. Adamo, adulto e anzi primo uomo della terra, è altrettanto responsabile quanto Eva, perché nulla lo costringe a dare quel morso e perché a mangiare la mela sono tutti e due.
Comincia dunque, all’alba del mondo, lo scaricabarile di tante colpe e responsabilità sulla donna, sulle sue perfidie e le sue grazie che piegano al suo volere il suo povero compagno, il quale, sebbene autoproclamatosi ben più intelligente, non deve avere una grande personalità se si lascia abbindolare così facilmente. Secondo questa (il)logica tante volte la donna era considerata colpevole perfino dello stupro subito, colpevole con la provocazione della sua stessa persona. Con uno sragionamento analogo, pure l’ebreo, prima di essere eventualmente colpevole di qualche reato o delitto, era colpevole di essere ebreo. Colpevole di essere.
Vecchia storia sempre nuova, in innumerevoli varianti. La ripercorre un inesorabile ancorché amabile saggio di Roberto Finzi, Il maschio sgomento (Bompiani). È pure dallo sgomento e dalla paura, di vario genere, dell’uomo dinanzi alla donna che è nata la rete di pregiudizi e interdizioni che hanno escluso la donna da tante possibilità di sviluppare liberamente la propria persona. Roberto Finzi è un grande storico dell’economia e del pensiero economico, autore di studi fondamentali su Adam Smith, Turgot e i fisiocratici, D’Alembert e gli Enciclopedisti; si è occupato di problemi umani e sociali dell’agricoltura, della pellagra e della mezzadria, e dei vari aspetti delle telecomunicazioni, unendo la precisione filologica al gusto umanistico del racconto storico, che gli deriva pure dalla sua formazione e militanza marxista. Un marxismo classico, con una concezione integrale dell’uomo e una capacità di visione globale e di logica rigorosa. Finzi non dimentica che Marx è stato appassionato lettore di Adam Smith e che quest’ultimo teneva la cattedra di Filosofia morale.
Quella visione integrale dell’uomo e anche dei suoi rapporti con la donna e quella logica rigorosa di ogni pensiero classico sembrano dileguarsi sempre più nell’imperante sgrammaticatura linguistica e morale, buonista e vagamente, ossia falsamente, politically correct che dilaga sempre più, pasticciando tutto e pure i discorsi sulla questione femminile. Recentemente sono stato duramente redarguito da una signora perché, casualmente accanto a lei davanti ad una porta, le avevo ceduto il passo. Meno male che non le ho offerto un caffè, sarei un uomo finito.
La condizione della donna è una sfilza infinita di censure, interdizioni, esclusioni, disuguaglianze nei secoli, nei Paesi, nelle civiltà e nelle culture più diverse. Sfilano, nel libro di Finzi, figure femminili storiche e mitologiche, regine e schiave, mogli borghesi e gran dame galanti, contadine piegate nei campi e poco dopo sui fornelli, operaie sfiancate dal doppio lavoro in fabbrica e in casa, intrepide e sagaci rivoluzionarie. Il protagonista del libro è il pregiudizio verso le donne e Finzi è un grande storico del pregiudizio d’ogni genere, razziale, sessuale, politico, religioso, culturale. Anche del pregiudizio scientifico; in uno splendido saggio sul caso Majorana ha dimostrato come quest’ultimo, considerato un genio eccezionale anche dai più grandi fisici dell’epoca, venisse presto considerato da essi fuori di senno appena osò chiedersi il senso di ciò che egli e i suoi colleghi stavano facendo, cosa che la scienza non può ammettere, domanda che essa mette all’indice come la Chiesa nei confronti di Galileo. In tono egualmente impegnato anche se godibilmente lieve, Finzi ha raccontato pure il pregiudizio nei confronti degli animali, in due originali saggi quali L’onesto porco. Storia di una diffamazione e Asino caro o della denigrazione della fatica.
Il pregiudizio non risparmia nessuno. Un illuminista come Hobbes non credeva alla stregoneria, ma riteneva che le streghe andassero punite per l’intenzione di fare «cattiverie» e la convinzione di poterlo fare. Voltaire, anticlericale ma anche giudeofobo, non credeva alle dicerie sugli accoppiamenti delle streghe con i caproni infernali, ma pensava che quelle dicerie fossero un’eco falsa dei rapporti sessuali che gli antichi ebrei avrebbero realmente avuto nel deserto con i capri. Nella sua sintetica e splendida Postfazione, che non solo presenta ma integra sostanzialmente il libro, Ingrid Rossellini ricorda come perfino Petrarca, il cantore di Laura, definisca la donna «incarnazione del demonio, nemica della pace, fonte di discordia» che l’uomo deve evitare in tutti i modi. Il pregiudizio ha una forza terribile, induce a vedere ciò che non c’è ma che siamo preparati a vedere, già convinti che lo vedremo. È accaduto una volta pure a me, per fortuna in una materia di assai poco conto, ma me ne vergogno.
Le eccezioni, le capacità di vedere ciò che c’è e non ciò che abbiamo già deciso di vedere, sono rare. Una, luminosa, che Finzi non menziona, riguarda proprio la stregoneria. Mentre alla fine del Quattrocento imperversava, in Germania, il Malleus maleficarum, il «Martello delle streghe» di Sprenger e Kramer, micidiale manuale della persecuzione di streghe e stregoni mandati al rogo, c’era un gesuita e poeta tedesco, Friedrich von Spee, confessore dei condannati. Ne aveva visti morire in modo atroce millecinquecento. Figlio della cultura del suo tempo e della sua Chiesa, Spee credeva nella possibile esistenza di streghe e stregoni in rapporto con il Maligno. Ma, come scrive in un capolavoro di umanità e di libertà intellettuale e morale, Cautio Criminalis, fra quelle e quei millecinquecento, dice, non aveva visto nessuna strega e nessuno stregone, bensì solo persone psichicamente malate oppure che sotto tortura avevano confessato tutto ciò che la tortura riesce quasi sempre a far dire al torturato. Spee dovrebbe essere considerato uno dei grandi dell’umanità. Il più autentico pensiero religioso è aldilà del pregiudizio; anche di quello della «maschilità antropomorfica» di Dio, come sottolinea Ingrid Rossellini citando vari Padri della Chiesa e mistici.
In ogni caso, qualcosa dev’essere andato storto e qualche colpa dev’esserci stata, all’origine dell’umanità, se le cose sono andate e continuano ad andare così scandalosamente. Se il Signore, dice il Genesi, ha visto che la creazione era buona, San Paolo implicitamente lo confuta, quando, nella Lettera ai Romani, scrive «Il creato è stato condannato a non aver senso... fino ad ora tutto il creato soffre e geme come una donna che partorisce»; l’umanità dunque sta appena nascendo, bambino non ancora del tutto uscito dal grembo, «tra le feci e l’orina», come dice un’espressione attribuita ora a Sant’Agostino, ora a San Bonaventura. Pure la redenzione di Gesù avverrà pienamente solo con la Parusia, con la sua seconda venuta alla fine dei tempi, e il Messia ebraico non è ancora venuto. Colpa, tutto questo, di un peccato originale sulla cui natura tanto si è discusso? Forse aveva ragione quel maestro talmudista ricordato da Moni Ovadia. Il peccato originale, secondo lui, era l’enorme stupidità di credere che mangiando una banale mela si potesse diventare come Dio. Dopo questa stupidità l’umanità non è più stata degna del Paradiso Terrestre.