il Fatto Quotidiano, 1 giugno 2018
Meglio o meno peggio?
È con somma sorpresa, mista a incredulità, che registriamo la prevalenza del buonsenso dopo 88 giorni di manicomio. Ci sarà tempo per giudicare il governo Conte. E l’unico giudizio che conosciamo, anche per la nostra ragione sociale, è quello sui fatti. Della maggioranza 5Stelle-Lega abbiamo già detto tutto: avremmo preferito un accordo tra il M5S e un centrosinistra profondamente rinnovato, ma queste tre ultime parole si sono rivelate un ossimoro, grazie a Renzi e ai suoi presunti oppositori interni. Molte cose della Lega e alcune dei 5Stelle non ci piacciono, ma il demenziale Aventino del Pd non ha lasciato alternative al patto giallo-verde. Salvo, naturalmente, le elezioni anticipate che ci avrebbero regalato un magnifico governo Salvini-Berlusconi. E, tra un governo con Salvini premier alleato del Caimano e un governo con Conte premier sostenuto dal M5S al 32,5% e dalla Lega al 17.5%, preferiamo il secondo: non sappiamo ancora se definirlo sulla carta migliore o meno peggiore, ma lo sapremo presto. Il programma, frutto evidente di un compromesso fra due culture e sensibilità diverse se non opposte, non cambia.
È un misto di molte proposte sacrosante e attese da decenni a costo zero o addirittura a vantaggio mille (su prescrizione, corruzione, mafia, carceri, manette agli evasori, conflitti d’interessi, Rai, Tav, acqua pubblica, tutela dell’agricoltura, green economy, vitalizi e altri tagli alla casta, revisione delle missioni militari all’estero e della Buona Scuola), riforme giuste ma di incerta copertura (reddito di cittadinanza, salario minimo, investimenti pubblici e revisione della Fornero), leggi sbagliate, scoperte e forse incostituzionali (la flat tax, a meno che non si riveli una semplice ed equa riduzione delle aliquote fiscali), assurdità da Stato di polizia (le forze dell’ordine armate di Taser, la pistola elettrica paralizzante inserita da Amnesty fra gli strumenti di tortura; e la licenza di sparare ai ladri anche quando non minacciano nessuno) o da governo xenofobo (gli asili nido gratis solo per bambini italiani), annunci ambigui tutti da verificare (i rimpatri individuali di immigrati irregolari senza diritto d’asilo sono doverosi, le espulsioni di massa sono vietate dalla Costituzione e dalla giurisprudenza europea). La lista dei ministri invece è parzialmente nuova. Savona, dipinto dal Colle come un kamikaze del Jihad Anti-Euro, va incredibilmente agli Affari europei: a Bruxelles stanno già preparando il comitato di accoglienza. A riequilibrarlo, c’è il ministro degli Esteri Enzo Moavero, non proprio un nome di cambiamento.
Viene dai governi Monti e Letta (e pare fosse in lista pure nell’abortito Cottarelli). All’Economia c’è un altro prof: Giovanni Tria, docente ed ex preside a Tor Vergata, con un buon curriculum, a parte i trascorsi con Brunetta. Il resto è un mix di tecnici e politici: a parte Di Maio al Lavoro, Sviluppo e Telecomunicazioni e Salvini all’Interno, non c’è nessun nome eclatante. Ci sono i pretoriani dei due leader: i dimaiani Fraccaro ai Rapporti col Parlamento e alla Democrazia diretta, Bonafede alla Giustizia e Grillo alla Salute; i salviniani Fontana ai Disabili, Centinaio all’Agricoltura e Stefani agli Affari regionali. L’ex finiana e neoleghista Bongiorno si occuperà di PA, sperando che riesca a farla funzionare un po’ meglio dei centralini della sua associazione Doppia Difesa. Fanno ben sperare Mauro Coltorti, ordinario di Geologia a Siena, e il generale Sergio Costa scopritore della terra dei Fuochi, ministri pentastellati delle Infrastrutture e dell’Ambiente. Non altrettanto si può dire dei ministri dei Beni Culturali Bonisoli (M5S), esperto di moda e design, e dell’Istruzione Busetti (Lega), docente di Educazione fisica e burocrate del Miur. Completano il quadro le grilline Barbara Lezzi (M5S) al Mezzogiorno ed Elisabetta Trenta alla Difesa. Esperta di intelligence, sicurezza e cooperazione, la Trenta dovrà chiarire un’ombra di conflitto d’interessi familiare (il marito colonnello al vertice di Segredifesa, che si occupa dei contratti delle Forze Armate).
Dopo tanti fallimenti e colpi di scena, abbiamo un governo di compromesso: magari non entusiasmante, ma nemmeno terrificante come l’hanno dipinto i giornaloni prim’ancora che nascesse. Tutto se ne può dire, fuorché che sia peggiore di quelli degli ultimi 15 anni. Non c’è neppure un ministro inquisito o condannato, ed è la prima volta dal 1994. Nessun ministro puzza di berlusconismo, ed è la prima volta dal 1983, quando con Craxi iniziò la lunga e ininterrotta stagione nera delle leggi ad personam e ad aziendam. I pericoli potrebbero arrivare dal Viminale, se Salvini tornasse indietro dal pragmatismo delle ultime settimane per reindossare i panni del Cazzaro Verde xenofobo e sparafucile da campagna elettorale permanente. E poi dall’ansia di fare tutto subito, anziché procedere gradualmente, sfasciando i conti pubblici. B. intanto schiuma di rabbia perché, per la prima volta da oltre 40 anni, pare ridotto a pelo superfluo della politica, come i suoi compari renziani. Ma, per averne la certezza, aspettiamo il vero “cambiamento”: su conflitto d’interessi, Rai, corruzione, evasione, mafia e prescrizione. Queste leggi non costano nulla: se restassero lettera morta, dimostrerebbero che dietro Salvini c’è ancora B. Ma basta con i processi alle intenzioni: avevamo letto che il capo leghista non voleva fare il governo, invece l’ha fatto. Cedendo su Savona e accettando la mediazione di Mattarella e Di Maio. Il quale ha sbagliato molto. Ma l’altroieri è stato bravo a salire al Colle sacrificando il suo orgoglio personale, per mettere Salvini alle strette e portare a casa il risultato. Se il gioco valeva la candela, lo vedremo presto.