La Stampa, 1 giugno 2018
Siamo entrati nel mondo post-globale
Care lettrici, cari lettori, se riuscite a distogliere per un attimo l’attenzione dai grovigli della politica italiana portate metaforicamente un fiore sulla tomba della globalizzazione. Il suo sepolcro è stato chiuso, quando in Italia erano le 16,05 di ieri, da uno scarno comunicato della Casa Bianca che annunciava l’imposizione, a partire dalla mezzanotte, di dazi sulle importazioni di acciaio (25 per cento) e alluminio (15 per cento) provenienti dall’Unione europea e dalla Cina, dal Canada e dal Messico, in spregio agli accordi sul libero commercio, garantiti dalla Wto, che, a questo punto, non ha più ragion d’essere.La globalizzazione era malata da tempo e gli entusiasmi che l’avevano salutata all’inizio si erano affievoliti man mano che ci si rendeva conto che ai risultati positivi nei Paesi emergenti (aumento del reddito e del tenore di vita) si accompagnavano risultati negativi nei Paesi più ricchi, dove le classi medie, e in particolare quelle medio-basse, sono state fortemente penalizzate nel reddito e nella sicurezza dell’impiego mentre i giovani hanno visto compromesse le possibilità di costruirsi un futuro: in conseguenza, una parte spesso determinante del consenso elettorale è andata a forze politiche non tradizionali e a uomini politici in forte rottura con il modo considerato normale di fare politica, come lo stesso Trump.Uccidere la globalizzazione così, a sangue freddo, può avere conseguenza molto pesanti sull’economia mondiale. Certo, un’acciaieria non si costruisce in pochi mesi, e gli effetti immediati della decisione americana saranno soprattutto una piccola, addizionale pressione inflazionistica negli Stati Uniti e il sorgere di nuove difficoltà per le imprese metallurgiche europee, cinesi e ancor più canadesi. Per l’Italia, la «patata bollente» dell’Ilva diventa ancora più bollente e non potrà non figurare ai primissimi posti nell’agenda del governo che faticosamente si viene preparando. Cinesi ed europei hanno già annunciato contromisure, ma c’è qualcosa che possono veramente fare, al di là della preannunciata imposizione di dazi sulle esportazioni americane, in un’«escalation» non risolutiva? È probabile che, almeno da parte cinese, si faccia ricorso all’arma valutaria: voi americani comprate meno acciaio e noi cinesi useremo di meno il dollaro nel commercio internazionale. L’obiettivo di Pechino di sostituire parzialmente il dollaro con la propria moneta, nelle transazioni internazionali, ha già fatto qualche passo avanti negli ultimi tempi ed è recente l’annuncio cinese di voler «lanciare» sui mercati finanziari contratti di vendita di petrolio denominati in yuan – e garantiti in oro – che sarebbero accolti con favore dai grandi produttori del Golfo. Non ci sarebbe da stupirsi se offerte analoghe venissero fatte anche all’Europa, specie se, come ha preannunciato lo stesso presidente americano, i dazi potrebbero essere estesi a settori molto più sensibili per gli europei, come quello degli autoveicoli.La mossa americana porterà sicuramente le imprese europee a reindirizzare parzialmente le esportazioni dagli Stati Uniti ad altri mercati ma questi aggiustamenti non potranno non ripercuotersi negativamente sul tasso di crescita. Anche perché, come ebbe a dire recentemente Angela Merkel, non si può più fare affidamento sugli Stati Uniti come partner ed è necessario che «l’Europa prenda il suo destino nelle sue mani».Tutto ciò indebolirà la posizione di quelli che, in Italia, vogliono genericamente «uscire dall’Europa» o «uscire dall’euro»: saremmo un autentico vaso di coccio sulla scena internazionale.