la Repubblica, 1 giugno 2018
Antonella Bellutti: «Ho conosciuto i miei limiti andando da sola in bici»
C’eravamo tanto amati”. La telefonata per fissare questa intervista ricorda un dialogo tra Nino Manfredi e Stefania Sandrelli nel film di Scola. Lui: «Di dove sei?». Lei: «Di Trasaghis». Lui: «E dov’è Trasaghis?». Lei: «Vicino a Peonis». Io: «Sulle cartine Andogno non c’è. Dov’è?». Bellutti: «Vicino a Dorsino». Io: «E dov’è Dorsino?». Bellutti: «In val d’Ambiez». Ulteriori spiegazioni (lasciare la strada per Madonna di Campiglio e svoltare per Molveno) consentono di arrivare puntuali a questa frazioncina. Un pugno di case che ricordano a loro volta qualcosa: Rio Bo. In tutto 39 abitanti, nessun bar, nessun negozio. Nella casa che ospitava la locanda dei nonni paterni vive da quattro anni con la sua compagna, Viviana Maffei, scialpinista e freerider. Hanno aperto un B&B vegano, forse il primo in Italia: locanda Itinerande (“Gerundio femminile” puntualizza Bellutti).
Per conto loro hanno scalato diversi 4.000, qui organizzano per gli ospiti escursioni in mountain bike e trekking nel parco Adamello-Brenta, più corsi di yoga, più corsi di cucina vegana.Antonella nel 2017 ha scritto un libro: “La vita è come andare in bicicletta” (ed. Sonda). Sottotitolo: “Autobiografia alimentare di una vegatleta”. Scrive bene, per anni lo ha fatto sulle colonne del Gazzettino. Ha fatto un sacco di cose, da sportiva praticante tesserandosi per tre federazioni (Fidal, Fci, Fisi) e spesso ripartendo da zero. È stata nominata ct della pista, maschi inclusi, e si è dimessa dopo qualche mese, con una lettera a Repubblica. «Mancava uno scritto che certificasse la nomina, di conseguenza i fondi per le trasferte. Da donna impegnata per i diritti delle atlete non potevo accettare una situazione del genere».
Le va di partire dall’inizio?
«Papà operaio con la passione dell’organo, tutte le domeniche mattina andava per chiese. Mamma, la classica madre che sta in pensiero e ti raccomanda di stare attenta, di non prendere freddo. Anche adesso. Mio fratello Stefano ha fatto ciclismo, smettendo dopo un anno da dilettante. Mia sorella Luigina era abbastanza brava nel basket, poi ha cominciato a lavorare per una ong tedesca operante in Ruanda, Burkina Faso e Repubblica Centroafricana e l’abbiamo vista sempre meno. Un anno sono andata a trovarla, in un villaggio fuori mano. Stiamo parlando e mi si avvicina un bambino, avrà avuto cinque anni, che tiene per la coda un topo morto. Mi sorride e dice qualcosa che non capisco. Mia sorella traduce: “Dice che se gli vuoi comprare la sua cena lui te la può vendere”».
Immagino che questa scena l’abbia accompagnata per anni.
«Sì».
E poi si sceglie, più meno lucidamente, da che parte stare.
«Credo di avere scelto lucidamente, anche se ci ho messo anni e anni».
Torniamo alla Bellutti che corre.
«Arruolata già alle elementari. L’insegnante di ginnastica, Tullio Biasi, mi segnala a un allievo di Calvesi, Andrea Vantini. Il mio primo maestro, il mio secondo padre. Sono morti a dieci giorni di distanza e lì ho cominciato a capire che dovevo rimettere insieme la mia vita, darle un senso. Corro i 100 ostacoli e le prove multiple, diciamo eptathlon. Negli ostacoli vinco sette titoli giovanili, sono primatista italiana juniores, a distanza di anni penso che la specialità ideale per me fossero i 400 ostacoli, ma non ci arrivo. Passo all’Assi Giglio Rosso di Firenze e il giorno prima della prima gara ho un dolore alla gamba. C’è qualcosa nella cavità poplitea posteriore, dice il dottore. Ecografia. Si pensa a una cisti sul tendine. Ago per aspirarla a freddo, peccato mi abbia tolto la sensibilità dal ginocchio in giù. Dopo un anno eravamo sempre lì. Ho mollato tutto. Ma l’atletica resta il primo amore».
Passiamo al secondo, allora. Ma prima devo controllare quel che mi ha raccontato un collega di Bolzano. Due dirigenti di società ciclistica si stanno allenando a gran velocità quando li passa in tromba una sagoma in cui credono di riconoscere una ragazza. “Andiamo a prenderla”, si dicono passata la sorpresa. E vanno a tutta, ma la raggiungono solo perché la ragazza s’è fermata a bere a una fontana. Corrisponde?
«Sì, la ragazza ero io. La bici era un modo per tenermi in forma, l’agopuntura mi aveva guarito dal male alla gamba. Corro su strada, corro su pista. Da non tesserata ad azzurra al mondiale ’92 in Spagna in meno di due anni. Arriviamo quarte nell’inseguimento per una manciata di secondi. Dico basta: come insegnante Isef ho un posto in una scuola privata e uno in palestra come istruttrice. Mi chiama il ct De Donà in vista del mondiale del ’94 in Sicilia: perché non faccio qualche test su pista? Fatti i test, buoni. Arrivo quarta. E mi metto seriamente al lavoro. Dopo quel mondiale il Coni apre il Club Olimpico per medagliati o potenzialmente tali, con borsa di studio. Ora il ct è Dario Broccardo, anche lui di Andogno. Studiamo la posizione in sella col professor Dal Monte, facciamo lunghi viaggi in Sudamerica dove ci sono piste coperte: Bogotà, Cochabamba. Aeroporti, alberghi, piste, non vedevo altro. O meglio, vedevo paesi con un divario spaventoso tra ricchi e poveri. In Colombia mi sentivo a disagio perché mi proteggeva una scorta armata. Ho vissuto in solitudine. Il ciclismo quanto a rapporti umani non mi ha dato granché, ma al di là dell’amore-odio che ho provato per lo sport agonistico devo dire che è stata un’esperienza costruttiva. Lo sport mi ha portata a mettere a fuoco i limiti di quello che facevo. È anche vero che un mondo con tanti problemi non puoi viverlo con gioia».
Una medaglia d’oro ad Atlanta nell’inseguimento individuale e una d’oro a Sydney nella corsa a punti a molti basterebbero.
«La seconda più sofferta della prima».
Si capiva, il vantaggio della tv sta nei primi piani.
«Faccio a meno della tv da dieci anni, radio e internet mi bastano».
Lei, a Sydney, mi ha fatto venire in mente L’Angélus di Millet, ha posato la bici come si poteva posare nel campo una vanga o un forcone, e c’era, o almeno mi è parso, una preghiera di silenzio in mezzo a quel casino festante. E poi quel sorriso esitante, un sorriso da bucaneve che fatica a fiorire. E poi tutti quei capelli che saltano fuori dal casco. In genere le cicliste su pista portano capelli corti. Tre rimandi solo per i capelli: un quadro di Klimt, “Il vento dell’est” di Pieretti-Gianco, Giovanna d’Arco.
«Due settimane dopo quella medaglia ero nella disperazione più nera. Un male di vivere che mi ha accompagnato per anni. Più d’una volta ho pensato al suicidio come sola via d’uscita».
Per la faccenda del Gh? Non ne valeva la pena.
«Lo dice lei, dipende da come uno prende le cose. Io, come una violenza estrema, come una macchia, ingiusta, su 25 anni di sport pulito. La medaglia di Atlanta l’avevo dedicata allo sport pulito. So che esiste. Esiste anche quello sporco, e mi sono sempre battuta contro. Risultato: esce un pezzo sulCorriere della sera in cui si dice che nel sangue di 61 atleti presenti a Sydney qualcosa non andava a livello di Gh, l’ormone della crescita. E si fanno i nomi di cinque medaglie d’oro certamente coinvolte: Agostino Abbagnale, Rosolino, Idem, Trillini, Bellutti. Mi verrebbe da urlare come Enzo Tortora che io non sono innocente, ma di più: sono estranea. Non mi ammazzo perché potrebbe sembrare un’ammissione di colpevolezza. Vado in depressione. Da lettrice, e anche quando lavoravo per il Gazzettino, pensavo che il giornalismo fosse socialmente utile. Adesso mi accorgo che può pure rovinare la vita alle persone. La mia di sicuro. Solo dopo dieci anni un giudice ha dichiarato i fatti in questione insussistenti».
Finché riparte la terza giostra, il terzo sport.
«Mi telefona Franco Bragagna, il telecronista Rai e mi propone di fare la frenatrice sul bob di Gerda Weissensteiner a Salt Lake City. È un modo per far parlare di questo sport, anche in vista dei Giochi di Torino. Accetto. Penso: se facciamo risultato bene, se esco di pista a 130 all’ora e mi schianto contro un albero, bene ugualmente. Arriviamo settime. Poi chiudo con l’agonismo».
Bilancio?
«Di quello che ho fatto da atleta non cambierei nulla. Mi dispiace di aver avuto un post-agonismo molto travagliato. Anni grigi. Nessuno dei ruoli in cui mi sono trovata mi ha fatto sentire utile, né gratificata. Tornando alle mie radici, tra queste montagne, sto quasi bene. Felicità è una parola grossa, ma serenità sì, quella c’è. Sa una cosa? Credo che accogliere persone sia curativo».
Lo credo anch’io.
«Vuole assaggiare uno strudel vegano? O preferisce un tiramisù?». Tutt’e due, già che ci sono. Buoni.
Fuori si fa buio, è ora di accendere il camino.
(Regine azzurre 9)