la Repubblica, 1 giugno 2018
Mikhail Baryshnikov: «Brodskij e io, due esuli a zonzo per New York sognando la Russia»
Mysh e Josef. Miauuuu! Iniziavano così le nostre telefonate. A Brodskij non andava a genio il mio nome Mikhail, né il diminutivo Misha. Volle ribattezzarmi Mysh, che vuol dire topo, e con me s’autodefiniva il Gatto Josef».
Baryshnikov ha un tono appassionato e vibrante mentre riferisce (al telefono da New York) le tappe della sua amicizia col poeta ebreo russo Iosif Brodskij, Nobel per la Letteratura nel 1987, cui ha dedicato uno spettacolo che debuttò nel ’15 a Riga, città natale di Misha, e che è stato applaudito negli Usa e altrove.
Ora sta per arrivare in Italia (a Napoli per il Teatrofestival il 28 e 29 giugno, all’Opera di Firenze dal 3 al 5 luglio e alla Fenice di Venezia dal 13 al 15). Già protagonista di un centinaio di balletti, a settant’anni “Mysh” non smette di sorprendere. Impresso nel nostro immaginario come il massimo danzatore vivente, mostra di attraversare il tempo con un’intelligenza esatta dei suoi strumenti.
Chiuso il ciclo dei prodigi acrobatici, è divenuto un attivo “promoter” nel campo della danza e un carismatico attore: in palcoscenico è passato dal ruolo di Gregor Samsa nella Metamorfosi di Kafka a quello di Nijinsky rivisto da Bob Wilson, offrendo interpretazioni la cui raffinatezza deve molto a un uso ricco del gesto. Testimonia questa sua sensibilità anche il monologo Brodsky/ Baryshnikov (il titolo adotta la dicitura americana del nome del poeta), dove una rete di movimenti e sollecitazioni visive s’intrecciano al racconto verbale.
Baryshnikov: quando scoprì la poesia di Brodskij?
«A quindici anni. Studiavo balletto all’Accademia Vaganova di San Pietroburgo – allora Leningrado – e i suoi poemi circolavano di nascosto tra noi ragazzi poiché illegali: era stato accusato di parassitismo dalle autorità sovietiche e condannato ai lavori forzati nel Nord».
Il vostro primo incontro?
«Avvenne a New York nel 1974, quand’era stato espulso da un paio d’anni. In Russia mi era stato impossibile conoscerlo. Dal confino era tornato a Leningrado grazie a un vasto movimento di intellettuali, tra cui Sartre, che avevano invocato la sua liberazione. Avevo pensato più volte di cercarlo, ma lavoravo come danzatore “Principal” al Mariinskij, dove mi avvertirono che se lo avessi frequentato la mia carriera sarebbe stata stroncata. Il giorno in cui lo conobbi fu il più bello della mia vita: si materializzò mentre fumava, di profilo, in un angolo della casa newyorkese dove mi aveva portato Rostropovich in occasione di un party pieno di artisti russi. Lo accompagnai fino al West Village, dove abitava, ed ero ipnotizzato dal suo magnetismo. Il nostro dialogo sarebbe proseguito fino alla sua morte nel ’96. Mi aiutò a capire gli Stati Uniti e divenne per me una specie di fratello maggiore. Giravamo per New York, andavamo a mangiare nei ristoranti cinesi, chiacchieravamo immergendoci nella nostalgia di San Pietroburgo. Si stabilì un legame forte benché fossimo diversi: lui era un fiero conservatore, vicino alle posizioni di Margaret Thatcher, nella quale potevamo imbatterci alla Casa Bianca quando i Reagan ci invitavano a cena. Era un aristocratico colmo di amarezza. Io sono stato sempre un democratico, anche prima di diventare cittadino americano».
Cosa ama della sua poesia?
«Il vigore della sua libertà. La trasparenza del suono. È poesia che non teme di riflettere le ragioni del cuore e un amore sconfinato per la propria terra. Me ne andai dall’Urss volontariamente (Baryshnikov fuggì nel ’74 durante un tour in Canada, ndr), mentre Brodskij non avrebbe mai lasciato la sua patria, dove aveva due figli. Il mio linguaggio, la danza, è universale, ma per lui la lingua era un elemento fondante dell’arte, e fu sofferto il suo approccio all’inglese. Eppure, malgrado le disavventure e i salti culturali, la capacità della sua poesia di conservarsi e crescere si è dimostrata immensa».
In “Brodsky/Baryshnikov”, con la regia del lettone Alvis Hermanis, lei recita proponendo accenni di Butoh e di flamenco. Perché questi linguaggi del corpo?
«Il Butoh nacque in Giappone dopo i bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki. È un’angosciosa danza astratta motivata da circostanze tragiche. Può essere in sintonia con l’anima scura di Brodskij. Con Hermanis abbiamo voluto montare un pezzo che non fosse mai solo lettura, ma creasse un viaggio poetico estraneo ad aspetti decorativi. Il teatro orientale è così: non descrive, evoca. Il flamenco, di cui sono un fan, ha la stessa energia anti-didascalica e lo uso per un poema sui cavalli. Qualche purista mi ha accusato di essere distante dal sound di Brodskij, il quale “cantava” in pubblico i suoi versi. Ma non voglio imitarlo: non sono un poeta. Sono un interprete cui interessa far comprendere bene le sue parole, dense di riferimenti».
Come avete scelto le poesie?
«Nel rispetto del suono e dei temi. Ce n’è una sull’invecchiamento che mi tocca molto: non avrei mai pensato di trovarmi in palcoscenico a settant’anni. Un ballerino si sente anziano a cinquanta! Pronuncio i versi di Brodskij con onestà, emotivamente nudo davanti al pubblico, esponendo la mia paura del declino e della morte. Invidio voi donne, più coraggiose e consapevoli. Noi maschi siamo vili: non concepiamo la mortalità. La morte fu centrale nell’esistenza di Brodskij, che ne ha scritto fin da ragazzo. Non smise mai di bere e fumare pur avendo gravi problemi cardiaci. Subì operazioni a cuore aperto. Era come se la sfidasse. Dopo un intervento chirurgico poteva accendere una sigaretta. Senza fumare, diceva, non scrivo e quindi non vivo. Sapeva che da qualche parte, in lui, c’era una risposta a tutto».
Lei, Baryshnikov, è oggi un grande fotografo, e il padre di Brodskij fu uno dei migliori fotoreporter della sua epoca.
«Brodskij stesso era un ottimo fotografo! Sono splendide le sue immagini, tutte in bianco e nero. Inseguiva anche così le sue risposte».
Adorava l’Italia e volle essere seppellito a Venezia.
«Chiunque invidia l’incomparabile bellezza dell’Italia, che per Brodskij era un sole in grado di spezzare il suo mare nero».
Ricorda il vostro ultimo colloquio?
«Fu il giorno prima della sua morte e lui esclamò: “Sii buono Mysh!”. A questa frase semplice e comune riusciva a dare il senso di una categoria filosofica».