la Repubblica, 1 giugno 2018
La lezione di Kiefer: «L’arte vive nelle rovine»
Non sono molti gli artisti contemporanei in grado di parlare e scrivere della propria opera. Per cui se Anselm Kiefer – uno dei più importanti pittori viventi – decide di farlo, conviene leggerlo. Senza farsi scoraggiare dalla premessa: «Dirò subito che non esiste una definizione di arte, ogni definizione si sgretola non appena viene a contatto con il suo enunciato. L’arte non è mai dove ci aspettiamo, dove speriamo di coglierla. Citando il Vangelo di Giovanni, capitolo 7, aggiungo: là dove si trova non potremo mai raggiungerla». Per cui nessuno si aspetti risposte semplici e chiare a un mistero profondo: «Temo che la bellezza che si realizza nell’arte possa trasformarsi in cenere quando viene portata al livello del discorso. Come diceva Goethe: “crea artista, non parlare!”».
Le lezioni che Kiefer ha tenuto al Collège de France nel 2010 e che ora escono per Feltrinelli ( L’arte sopravvivrà alle sue rovine, prefazione di Gabriele Guercio traduzione di Debora Borca pagg. 211, euro 25) partono da questa contraddizione: da una scarsa fiducia nella possibilità del discorso di assolvere al suo compito. Le parole sono chiamateal massimo a indicare una via, circoscrivere un campo, illuminare per un attimo la notte della creazione artistica, che rimane insondabile. E infatti sono spesso parole poetiche. Kiefer scende nel buio della terra con Novalis, sfida le grandi altezze insieme a Caspar David Friedrich, si nutre di vertigini romantiche e di profondità proustiane, passeggia con il luminoso Valéry nelle marine descritte da Rimbaud. Ma attraverso questa fitta e colta trama di citazioni, di riferimenti visivi, di excursus nella storia, ci dice molto di sé, della sua arte, della sua fede. Che poi sono la stessa cosa. «Soltanto nell’arte ho fede, senza di essa sono perduto. Soltanto le poesie hanno una realtà. Come avrete capito non riuscirei a vivere senza poesie e senza quadri non soloperché non so fare nient’altro, ma per ragioni quasi ontologiche… Tutto il resto non è che pura illusione, voi che mi ascoltate, ad esempio, non sono sicuro che siate reali».
È una frase, per lui, da prendere alla lettera: la sostiene con le teorie della fisica moderna e con l’evidenza che ogni percezione è illusoria. Tocca all’artista – una sorta di titanico sciamano – fondare quindi un mondo che abbia forma e senso. Forse per questo ha creato delle vere e proprie città-mondi: i suoi studi, opere totali, sterminate installazioni ambientali. Parliamo di Barjac, in Francia, dove il tedesco Kiefer ha lavorato per quasi vent’anni, un luogo enorme dove ha piantato alberi, seminato tulipani ed enormi girasoli giapponesi, creato strade, innalzato edifici: cinquantacinque di essi sono stati collegati da tunnel sotterranei e ponti sospesi. «L’idea – scrive – era di creare uno spazio virtualmente vuoto».
Ma attenzione: non c’è mai stato un progetto iniziale, una pianificazione dei lavori, Barjac non è l’illustrazione di un concetto creato a tavolino. «Al contrario, è stata la sua realizzazione a posteriori ad avermi rivelato l’idea di vuoto». È un punto chiave dell’estetica kieferiana che rifugge dalla moda contemporanea: tanti artisti – dice – non partono dall’atto creativo, ma da una teoria, da un progetto. L’opera per loro non è che la dimostrazione di un teorema. Così procedono «invertendo il processo». L’autore se la prende con i mostri sacri dell’arte, con eventi intoccabili e celebratissimi in cui curatori famosi dettano il tema dell’esposizione. Ed è divertente che accusi Documenta – la manifestazione di Kassel più ambita e incensata dagli esteti contemporanei – di appartenere al Medioevo: perché è nel Medioevo – dice – che i pittori erano chiamati a «informare la popolazione» sui misteri della fede.
L’opera dunque non illustra, non spiega, non sostiene una tesi.L’opera è una rivelazione, che avviene all’insaputa del suo stesso creatore. È l’unica realtà, quindi è una cosa viva: «Un quadro non si trasforma solo nel corso dei decenni o addirittura dei secoli a venire, può anche trasformarsi all’interno di intervalli più piccoli. Quando entro nel mio studio al mattino resto spesso sorpreso da quanto è avvenuto durante la notte, da ciò che nel quadro ha potuto trasformarsi. Perché il quadro evolve a ritmo continuo, potrei dire quotidianamente».
Tesi paradossale, ma non troppo per chi conosce l’opera di Kiefer. Sottopone i suoi lavori alle mutazioni provocate dall’elettrolisi, li espone alla pioggia e al vento (come già faceva Edvard Munch) chiedendo alla natura di completarli, li rinchiude per mesi o anni in container in attesa che possano tornare alla luce. Li seppellisce, perfino. «Li inumo e sopra sistemo una campana. Era un congegno usato nel cimitero di St.Marx a Vienna nella prima metà dell’Ottocento: imperversava allora un terrore endemico per la morte apparente, per il coma, e molte persone spendevano modeste somme per evitare l’angoscia. I feretri erano collegati allo stanzino del custode tramite delle corde. …Come il custode di St.Marx, aspetto il suono della campana per liberare i miei quadri dal coma».
Pensiero estremo, pratica abissale: l’artista è un alchimista, che si mette in ascolto per aspettare il momento giusto in cui tutti i materiali che ha assemblato – terra, alberi, bitumi, fiori, piombo, acqua, fotografie, oggetti vari – possano magicamente trovare la loro forma e il loro posto nel mondo. Solo il tempo dirà quando l’opera è compiuta.
Perché è il tempo la vera trama di cui sono fatti i suoi capolavori: non è raro, vedendoli, sentirvi affiorare la presenza antica di ere geologiche, il respiro della Storia insieme al fuggevole passaggio del momento presente. L’arte sopravvivrà alle sue rovine, ha titolato Kiefer il suo libro, pensando fosse una citazione di Adorno, scoprendo invece che probabilmente ne è lui stesso l’autore. Chiunque l’abbia detta, le sue lezioni suggeriscono una postilla: l’arte sopravvive perché è proprio dalle rovine – del tempo, della storia – che nasce. E su di esse si fonda.