la Repubblica, 1 giugno 2018
Il ragazzo del buio: «La mia vita in una stanza». Paolo, 16 anni, e la scelta di isolarsi dal mondo
Nella sua stanza-rifugio Paolo non alza mai le tapparelle. Vetri schermati, odore di chiuso, tende tirate. «La luce mi disturba. Meglio il buio. Tanto non ho orari. Gioco tutta la notte. C’è silenzio. Soltanto noi in Rete. Oltre quelle finestre c’è gente che non mi piace. In questa grotta mi sento tranquillo». Nella sua camera di adolescente in cui si è autorecluso da oltre due anni, Paolo, 16 anni, si sfida con cento flessioni al giorno. «Seguo i video dell’esercito, così resto in forma, mi stanco e dormo». Non fanno così anche detenuti in cella? Paolo ammette ironico: «Sì, sono come un carcerato». Il tirassegno, le scarpe in giro, i vestiti sul letto, i fumetti, ma anche il fucile e il giubbotto per “Softair” conservati con cura. Tutto è in ombra, ammassato. Dove mangi? «Mio padre mi passa il vassoio, lo appoggio qui, vicino al computer». Perché non siedi a tavola con lui? «Perché ci sarebbe un silenzio di tomba». Ma un sogno ce l’hai? «Vorrei far volare i droni». Come fossero aquiloni.
Una villetta di Roma Sud, Paolo, nome di fantasia, occhi neri e capelli scuri, aria gentile e lineamenti delicati, apre la porta della sua prigione senza sbarre di ragazzo “hikikomori”. Nome giapponese per indicare uno degli oltre centomila adolescenti italiani che hanno scelto di confinare il loro cielo in una stanza. Ragazzini che si isolano dalla famiglia, dagli amici, abbandonano la scuola e restano in contatto unicamente con l’universo virtuale del web. Confondono il giorno con la notte, consumano i pasti da soli, si trasformano in eremiti domestici, ma sono campioni di gaming e di giochi in Rete.
Epidemia silenziosa di disagio sociale, il primo a codificarla è stato lo psichiatra giapponese Tamaki Saito negli anni Ottanta, nel Sol Levante gli “hikikomori” sono un milione, un’emergenza nazionale. Valicare la frontiera delle loro prigioni casalinghe è quasi impossibile, ma Paolo, incredibilmente, per un pomeriggio la sua porta l’ha aperta. E ha anche accettato, seppure schermato, di farsi fotografare. Come se in fondo, da qualche parte, il suo cuore volesse saltare oltre l’ostacolo.
Il letto incassato nell’armadio è sfatto, ci sono gli scatoloni di un trasloco recente, la postazione del computer è invece linda e ordinata. «Ecco, io vivo qui, mio padre sta di là, con il nostro cane. Non esco da due anni, da quando ho lasciato la scuola. Il mondo esterno non mi interessa, non mi dà stimoli. Anzi un po’ mi fa schifo. A noi giovani dicono sempre che non c’è futuro, non c’è lavoro. E allora a che serve studiare? Ma ho invece un sacco di amici di tutto il mondo in Rete, facciamo tornei anche con squadre di 50 giocatori, l’altra notte sono andato a dormire alle cinque ma abbiamo vinto».
Un lutto grave nella sua vita di bambino, ma poi un’infanzia serena, un papà che rimasto vedovo si dedica anima e corpo al suo unico figlio. Ma qualcosa in Paolo si rompe all’ingresso nella scuola superiore, istituto tecnico informatico. Anche se per Paolo, come per molti “hikikomori” la vera origine dell’autoreclusione resta misteriosa. Ma il dato comune è il rifiuto della prestazione. Scendere dal treno in corsa. La voglia di ritirarsi da una società che corre, dove chi non è al passo è “sfigato”.
Seduto sul suo letto, mentre mostra con orgoglio il fucile con cui andava a giocare a “Soft Air”, (simulazione dal vivo di tattiche di guerra), perfetta ricostruzione di “M4” in dotazione alle forze speciali Usa, Paolo prova a guardare dentro la sua prigione.
«In classe ero a disagio, mi annoiavo, sempre solo nel mio banco, non avevo legato con i compagni, i miei amici d’infanzia erano in scuole diverse. E poi un computer io lo so già smontare, rimontare, potenziare, delle altre materie non mi importava nulla. Bullismo? No, del resto non ho mai dato fastidio a nessuno, però nessuno mi cercava. Anche i prof mi ignoravano, era come se fossi invisibile».
Nella sua stanza-grotta Paolo ascolta le colonne sonore di Hans Zimmer, divora film e fumetti, gioca a “Countstrike”. «Tra noi gamers ci sono rispetto, onore, siamo una squadra sempre in contatto, anche la notte, con loro sono felice, mi danno stimoli, mi fanno sentire vivo. Per questo vorrei entrare nell’esercito: per ritrovare questa emozione».
Chissà. Per adesso il cielo di Paolo sembra ancora ben chiuso nella sua stanza di hikikomori. «Non so spiegare perché ma piano piano ho avuto un rifiuto di quella classe, non studiavo più, non volevo uscire la mattina, ero felice soltanto quando tornavo a casa e potevo chiudermi con il mio computer. Mio padre era al lavoro, mia nonna non diceva niente, il mio ritiro è cominciato così». Carlo, papà di Paolo, è un uomo affranto che grazie all’associazione “Hikikomori Italia” fondata dallo psicologo Marco Crepaldi, si è unito ad altri genitori e ha ritrovato la forza di lottare. «Spero sempre che la sua porta si apra. Quindici giorni fa ha accettato di venire con me a trovare la nonna. In auto si guardava intorno, parlava... Allora è possibile, mi dico, che torni il mio ragazzo allegro e pieno di vita, Come altri genitori, mi chiedo ogni giorno: l’ho lasciato troppo solo? È colpa dei videogiochi? Poi la smetto di tormentarmi e cerco di portarlo per mano a uscire dalla prigione». Racconta Marco Crepaldi: «Avevo studiato gli hikikomori nella mia tesi di laurea, è bastato aprire un blog per capire che il fenomeno stava esplodendo anche in Italia.
Attenzione però, non è la Rete che porta all’isolamento, semplicemente i “ritirati” si affratellano sul web. Curarli? La scuola può fare moltissimo, così il sostegno psicologico e l’auto- aiuto tra genitori. La nostra pagina Facebook ha migliaia di contatti, tra cui tanti ragazzi auto- reclusi».
Paolo richiude la stanza. «Uscire?Ci vorrebbe una spinta, Ehi, se mi date un lavoro smetto di fare l’hikikomori...». Ride. Ha di nuovo sedici anni. E farà volare i droni.