il Giornale, 1 giugno 2018
Storia di Ivan Duque, l’uomo nuovo di Bogotà contro narcos e sinistra
Prima che l’ex presidente Álvaro Uribe lo lanciasse nel 2014 come senatore nelle liste del Centro Democratico (partito di centrodestra), l’avvocato 41enne Iván Duque era uno sconosciuto in Colombia avendo trascorso tutti i suoi studi superiori in economia tra le università di Harvard e Georgetown, negli Stati Uniti, per poi disimpegnarsi nel board del BID, la Banca Interamericana di Sviluppo. Qui a sponsorizzarlo fu, per la cronaca, l’allora ministro dell’Economia Juan Manuel Santos, oggi presidente uscente con un tasso popolare di gradimento rasente allo zero ma, soprattutto, negli ultimi anni passato da delfino a nemico acerrimo di Uribe.
Oggi, invece, non solo tutti lo conoscono ma i numeri danno proprio Iván Duque come grande favorito per il 17 giugno, quando i colombiani (36 milioni gli aventi diritto, in realtà andranno alle urne in poco più di 20 milioni e già sarebbe un record) sceglieranno chi sarà il loro presidente sino al 2022. Oltre agli oltre 7,5 milioni di voti già ottenuti al primo turno, dalla sua Duque ha anche il terrore di molti suoi connazionali che la Colombia possa far la stessa fine della confinante Venezuela visto che, suo avversario al ballottaggio, sarà il 58enne Gustavo Petro. Un grande amico del compianto Hugo Chávez, ammiratore sperticato della rivoluzione bolivariana ma, soprattutto, ex guerrigliero del M-19, gruppo terrorista la cui prima azione fu non a caso il furto della spada di Bolívar «per tornare alla lotta, col popolo e le armi, sino a conquistare il potere».
Mamma politologa e papà politico, a indagare sulla famiglia di Duque la prima cosa rilevante che viene alla luce è la dura telefonata che nel lontano 1981 suo padre – all’epoca governatore di Antioquia, regione che ha come capitale Medellín – fece all’allora direttore del locale dipartimento per l’aeronautica civile, un appena 29enne Uribe, per chiedergli conto su come mai avesse concesso licenze di volo a un noto narcotrafficante, Jaime Cardona.
Di fronte alla risposta fredda e sicura di Uribe («si sbaglia, il signor Cardona è un brav’uomo») Duque Senior si sentì preso in giro e – come risulta da documenti declassificati dell’intelligence USA il papà di Iván Duque si fece passare immediatamente al telefono la segreteria dell’allora presidente colombiano Turbay Ayala per fissare «con urgenza» una riunione e avvisarlo che a capo dell’aviazione civile di Antioquia c’era uno che «concede licenze alla mafia». Oggi non si sa se «per comprensibile paura» – il predecessore di Uribe aveva rifiutato di concedere le licenze al cartello di Medellín ed era finito al cimitero – o se «per collusione».
Se è comunque indubbio che Iván Duque sia stato lanciato da Uribe (presidente che gode ancora di un altissimo gradimento ma, stando ai sondaggi, è anche odiato da un terzo dei colombiani), è anche vero che deve molto della sua carriera anche a Santos e, soprattutto, si differenzia parecchio dal suo padrino politico.
«La paura di Petro contro l’odio verso Uribe». Si gioca su questa bipolarità l’elezione del 17 giugno secondo gli analisti e, per capire chi sia Iván Duque, Controstorie vi riassume qui le sue risposte più significative in due interviste concesse ieri a WRadio e alla tv Univisión.
Come sta lavorando per ottenere quei 3 milioni di voti in più rispetto ai 7,5 del primo turno necessari per diventare presidente?
«Abbiamo analizzato il voto del 27 maggio scorso regione per regione e ci siamo focalizzati nel costruire una grande coalizione inclusiva. Per farlo, oltre ai gruppi politici ho invitato anche le forze sociali perché ci appoggino e io possa guidare un esecutivo in cui tutti i colombiani si sentano rappresentati».
Quali le maggiori differenze sul fronte economico rispetto a Petro?
«Io credo in un paese d’intrapresa e non sto promuovendo l’odio tra le classi sociali. Confido in un modello dove lavoratori e datori di lavoro possano operare in modo armonico e profittevole per entrambi, non cercando invece d’inimicare gli uni agli altri. Non ho fiducia nella statalizzazione mentre per me è fondamentale che proliferino le microimprese, le PMI e le grandi aziende che, in libertà economica, possano creare posti di lavoro in modo permanente, facendo così crescere la classe media e riducendo la povertà. Non sono d’accordo con la politica degli espropri né con lo Stato che stigmatizza chi non gli aggrada perché a mio avviso tutti i settori economici devono convivere sulla base del motto produrre conservando e conservare producendo».
E le politiche sociali?
«Sono fondamentali ma il loro successo non si fa per decreto o tramite papà Stato che crede, solo per la decisione unilaterale di un governante, si possa creare benessere. Non è così ma la prosperità si realizza solo con la creazione di posti di lavoro permanenti. Inoltre, la miglior sanità e l’istruzione pubblica di qualità devono essere finanziabili e sostenibili, come prevede il nostro programma».
Una grande differenza rispetto a Petro riguarda il processo di pace con le Farc (le Forze armate rivoluzionarie di Colombia, ndr)
«Certo, perché non possiamo permettere che l’impunità si converta in una politica di Stato. Perciò faremo le modifiche necessarie agli accordi, pensando alle vittime e sulla base di quattro principi: verità, giustizia, riparazione e non ripetizione. Sono d’accordo che ci sia una riduzione della pena ma mi oppongo che chi sia macchiato di crimini contro l’umanità possa sedere in Parlamento senza prima avere scontato almeno una parte della pena, magari anche solo in colonie agricole e non in carceri comuni. Per questo ritengo che debbano essere sostituiti i membri delle Farc che occupano 10 seggi in Parlamento macchiatisi di gravi crimini contro l’umanità. La mia non è vendetta ma solo senso di giustizia».
Cosa la preoccupa di più oggi?
«Da un lato che le coltivazioni di coca stiano crescendo esponenzialmente, dall’altro le antiche cellule della Farc, i cosiddetti dissidenti, che si stanno riarmando».
Quante volte si è trovato in disaccordo con Uribe?
«Molte volte, ma più sovente concordiamo».