il Giornale, 1 giugno 2018
Trent’anni di Fantacalcio
Non erano quattro amici al bar ma sette. E il bar si chiamava «Goccia d’Oro» e stava in via Ausonio, a Milano, alle spalle del carcere di San Vittore. Il suo posto, con il tempo, lo prese un negozio di manicure. Erano sette, come i magnifici del film con Yul Brynner e Steve McQueen, era di giugno, trent’anni fa giusti, e decisero di sostituire il virtuale al reale prima che arrivasse internet, di giocare un campionato parallelo al campionato di calcio prima che la realtà virtuale sostituisse la realtà. Funzionò.
Ma il Fantacalcio, la magnifica ossessione che trasformato in realtà il sogno e l’incubo, di diventare ct di sessanta milioni di italiani, era nato in una libreria di Chicago, in un pomeriggio d’estate, figlio più del football americano che del Processo del lunedì. Riccardo Albini, il primo dei sette amici, dirigeva una rivista di videogiochi e in America frequentava le library, i campi da baseball e il futuro che verrà. Voleva sapere dove andava il mondo e a quell’idea meravigliosa arrivò un soffio prima degli inglesi. Scoprì quel passatempo che agli inizi degli anni Sessanta due manager degli Oakland Raiders di football, Wilfred Winkenbach e Bill Tunnel, avevano improvvisato per ingannare il tempo durante le trasferte della squadra, e poi trasformato in un Fantasy game. E capì che poteva essere la madre di tutte le rivoluzioni, la pagella delle pagelle, il calcio senza il pallone. Un successo da milioni di giocatori che ha travolto tutta Europa «un social network nato prima del social network» dice il suo inventore, l’erede, nella passione di popolo della vecchia, cara schedina Totocalcio.
Riccardo Albini, ha 64 anni, è giornalista, ha due figli «e nessuno dei due che gioca al Fantacalcio». Da bambino giocava con le biglie e a «Napoleone dichiara guerra a...». A a pallone invece era una schiappa. È nel mondo dei giochi da sempre anche se dal Fantacalcio ha guadagnato meno di quello che vale il fenomeno. È lui che ha importato dal Giappone il sudoku. Le sue fantasquadra si chiamano «Surreal Madrid» e «Amletico Madrid»: «Il logo è una mano che solleva con il teschio». Non ha solo inventato un gioco «virale», ma creato una nuova mentalità, una filosofia. Con il Fantacalcio l’italiano è uscito, cosa che sembrava impossibile, dalla logica tifosa delle tribù del calcio. Adesso se vuoi vincere devi tifare anche per il tuo nemico, imparare ad apprezzare chi non è dei tuoi. E se vuoi misurarti con chiunque devi informarti, sapere, conoscere. Il contrario di quello che succede nei social, dove tutti sentenziano di cose che non sanno, una civiltà del rispetto che sarebbe miracolo in politica.
Non solo: «Avendo una fantasquadra ti confronti con le stesse problematiche che ha un allenatore vero. Quando perdi una fantapartita perché la tua squadra prende il palo succede perché la stessa cosa succede nella realtà. Così sei meno incazzoso, meno viscerale». Così impari.
Spiega con ironia: «Per molti anni è stata l’ancora di salvezza degli interisti, adesso lo è per tutti quelli che non sono juventini. È una forma di consolazione. Per chi tifa squadre che perdono sempre è il surrogato di una gioia che non proveranno mai». Beati gli ultimi del resto stava scritto anche in un altro libro. «Giochiamo tra amici da 30 anni e l’unico juventino del gruppo ha vinto quest’anno per la prima volta». Molti sono rimasti amici negli anni grazie alle partite virtuali. Il Fantacalcio è nato nel periodo di massimo splendore dei calcio italiano «avevamo in squadra Maradona, Van Basten, Matthäus, il meglio del mondo». Ora ci sono parametri zero, svincolati, riciclati, promesse mancate. E vince sempre una. Ma fa niente: l’uomo, si dice, non smette di giocare perché invecchia, ma invecchia perché smette di giocare.