Il Sole 24 Ore, 1 giugno 2018
La «cura» Marchionne: pochi dividendi ai soci ma valore sestuplicato
C’è un filo unico che collega il primo piano Fiat firmato da Sergio Marchionne nel 2004 con l’ultimo che verrà presentato oggi a Balocco: neutralizzare l’auto, che storicamente ha dato più di un grattacapo alla famiglia Agnelli, trasformando l’asset in un’opportunità. E Marchionne ci ha provato fin da subito. A differenza dei suoi predecessori ha scelto infatti già dai primi mesi di sedere al comando del comparto produttivo nel tentativo di esorcizzare gli effetti negativi di un business ad alto tasso di investimenti e bassa marginalità. Lì è rimasto fino a quando non ha impresso la svolta cruciale. E se è vero che in questi 14 anni ha staccato decisamente poche cedole è altrettanto certo che chi ha investito un euro al momento del suo arrivo oggi se ne ritrova in tasca oltre sei. Perché, stante il convertendo da 3 miliardi e il mandatory convertible security Ferrari da 2,5 miliardi (da sommare alla capitalizzazione di Borsa di Fiat di aprile 2004 pari a 4,4 miliardi), il valore del Lingotto nel suo complesso è aumentato di oltre 6 volte: questo tenendo conto della valorizzazione complessiva di circa 66 miliardi che si ottiene se alla capitalizzazione di Fca si sommano le quotazioni di Ferrari e Cnh.
Sono tre le mosse che hanno impresso quel necessario cambio di direzione di cui ancora oggi Fca si avvantaggia. La prima è stata certamente la serrata trattativa con General Motors che nel 2005 ha portato nella casse di Torino 1,55 miliardi di euro, proprio nel momento in cui la crisi di liquidità sembrava dover decretare la fine dell’auto italiana. La seconda è stata la conquista di Chrysler. E la terza è tutta racchiusa nell’inversione di rotta del 2016, quando Marchionne ha deciso, di fatto, di cambiare il piano del 2014: ha smesso di parlare di volumi e ha stabilito che la chiave del successo doveva essere il mix di prodotto, tutto da costruire attorno al segmento premium.
Nel mezzo, la prima vera metamorfosi è stata quella di far dismettere al gruppo i panni da conglomerata. La scelta è stata assunta ad aprile 2010, come parziale revisione del business plan presentato nel 2009. Quell’anno Marchionne ha deciso di separare l’auto da camion e macchine agricole portando sul mercato due holding quotate. Schema poi in parte riproposto con Ferrari e ora con Magneti Marelli. Quel primo passaggio, garantiva Marchionne già all’epoca, ha permesso di eliminare «una spina nel fianco» di Fiat. Ed ha favorito le successive nozze del Lingotto con Chrysler.
Tanta finanza, dunque, nei piani stilati dal ceo di Fca ma anche una visione industriale che con il tempo si è fatta sempre più chiara. Non foss’altro perché non dovendo più ragionare in termini di “salvezza”, il manager ha potuto dare un orientamento chiaro allo sviluppo del gruppo.
Certo, analizzando tutti i piani presentati durante questo arco temporale spesso i target non sono stati centrati, basti pensare al tanto celebrato e poi accantonato progetto Fabbrica Italia: era previsto che nel paese sarebbero state prodotte fino a 1,4 milioni di vetture nel 2014 ma nel 2017 ne sono uscite dagli impianti 750 mila e sul futuro pesa la scelta di mantenere in Italia solo la produzione di Jeep, Alfa, Maserati e 500X. Tuttavia ogni fase ha rappresentato uno step cruciale per dar vita alla Fca di oggi. Così il piano 2004 ha gettato le basi per costruire fondamenta solide, quello al 2010 ha rincorso la diversificazione dall’Europa incassando i successi in America Latina, quello al 2014 ha beneficiato dell’ambiziosa operazione Chrysler, e quello al 2018 ha segnato la definitiva trasformazione di Fca spostando il centro del business dal mass market ai segmenti premium, con i Suv di Jeep a fare da traino in America ed Europa e quelle di Ram a spingere le vendite in Usa.
La crescita, va detto, non è stata quella messa nero su bianco sulle slide di piano, soprattutto in termini di redditività ma spesso anche di ricavi. La allora Fiat Group Automobiles pensava di poter traguardare i 3,5 miliardi di utile netto già nel 2010 ma quel numero è stato infine raggiunto nei conti del 2017, sebbene sia stato sfiorato anche in altre occasioni. Così il giro d’affari che doveva centrare la soglia dei 67 miliardi sempre nel 2010 ha superato quel valore solo quattro anni dopo: il bilancio 2014 si è chiuso con un fatturato di 96 miliardi contro i 56,3 miliardi del 2010.
In questo quadro il lavoro più rilevante è stata l’azione sul debito. Nel 2004 Fiat aveva una posizione finanziaria netta di 4,4 miliardi. Con l’acquisizione di Chrysler il debito netto industriale è lievitato a 9,7 miliardi nel 2013 per poi nel giro di cinque anni azzerarsi a beneficio evidentemente della generazione di cassa che a fine anno dovrebbe raggiungere i 4 miliardi. Più 5 miliardi di utile, target confermato anche di recente dal ceo Marchionne. Determinante in questo percorso, oltre alla girandola di scorpori, è stato il cambio di passo sulla linea prodotti. Marchionne ha smesso di inseguire il miraggio dei grandi volumi con un target inizialmente fissato di 7 milioni di vetture al 2018 posizionandosi su cifre più basse ma con ritorni più elevati. Di qui il peso crescente che ha assunto Jeep. Se nel 2013 il brand produceva 700 mila vetture e pesava appena il 16% sulle vendite, a fine 2018, secondo le stime, dovrebbe arrivare a un passo dal 40% sui volumi grazie a 1,7 milioni di auto immatricolate. Proprio questo dato e questa nuova impostazione, incrociata con le necessarie evoluzioni del settore auto, tra vetture elettriche e guida autonoma, rappresentano le fondamenta della Fca che verrà.