il Giornale, 31 maggio 2018
Chiamami sotto voce, il romanzo di Nicoletta Bortolotti
Le mogli e i bambini degli immigrati seppur con regolare permesso di soggiorno? «Sono braccia morte che pesano sulle nostre spalle. Che minacciano nello spettro d’una congiuntura lo stesso benessere dei cittadini. Dobbiamo liberarci del fardello». Così si esprimeva il politico svizzero James Schwarzenbach (1911-1994), nel pieno degli anni Settanta, parlando degli italiani. E le sue opinioni erano condivise da molti svizzeri, anche se non dalla maggioranza. Schwarzenbach lanciò anche una serie di referendum, che non passarono, come quello per limitare la presenza dei «foresti» al 10 per cento della popolazione elvetica. Ma al di là di Schwarzenbach che condusse un’autentica campagna anti-italiana – «Scalano i posti più comodi, studiano, s’ingegnano: mettono addirittura in crisi la tranquillità dell’operaio svizzero medio, che resta inchiodato al suo sgabello con davanti, magari in poltrona, l’ex guitto italiano» – la condizione degli emigranti italiani, soprattutto se stagionali, era in quegli anni davvero molto dura. Lo era, soprattutto, quella dei loro figli che in Svizzera, in teoria, non avrebbero potuto nemmeno entrare. A un certo punto si arrivò ad avere quasi 30mila piccoli clandestini costretti a vivere reclusi. Sepolti vivi, per anni, nei loro appartamenti ai bordi dei centri industriali, o nelle soffitte di case di montagna vicino ai cantieri dei trafori (moltissimi gli italiani che lavorarono a quello del San Gottardo). I genitori, terrorizzati dalle denunce dei vicini, raccomandavano loro: non fare rumore, non ridere, non giocare, non piangere. Una situazione così tremenda che l’ambasciata e i consolati italiani organizzavano addirittura delle scuole clandestine.
Ma quando si veniva scoperti non c’era modo di sfuggire: i nostri orfanotrofi di frontiera erano pieni di piccoli che, denunciati, erano stati portati dai genitori disperati appena oltre confine. Un esempio: alla Casa del fanciullo di Domodossola, su 120 ospiti 90 erano «orfani di frontiera», bimbi clandestini espulsi. Questa la storia, poco raccontata, sia da noi, sia in Svizzera (c’è una ricerca pubblicata nel 1992 a firma Marina Frigerio e Simone Burgherr e nel 2009 al Festival di Locarno è stato presentato un film in super 8 girato nel ’72). Adesso, però, è arrivato un romanzo, scritto da Nicoletta Bortolotti (svizzera che vive nel milanese), che permette di conoscere il dramma di quella clandestinità proprio attraverso gli occhi di due bambini. Si intitola Chiamami sottovoce (HarperCollins, pagg. 358, euro 17) e fa muovere il lettore tra due piani temporali: il 1976 della «caccia ai bambini» e il 2009.
Nella trama si incrociano le vicende di Nicole, figlia di un ingegnere che lavora nei trafori, e di Michele, piccolo immigrato clandestino nascosto dai propri genitori per poterlo tenere con sé. I bambini diventano amici, si vedono di nascosto, non capiscono quanto questo rapporto possa mettere in pericolo la permanenza di Michele. E intorno a loro ruota il mondo degli adulti. Per alcuni la legge è la legge e non si discute, altri privilegiano la solidarietà. Il padre di Nicole, a esempio, con gli operai su al traforo ci vive. Quando qualcosa va storto, quando muoiono o restano feriti, sente il peso della responsabilità. Sua moglie, invece, è una brava persona, ma tutta rigore, obbedienza alla norma. Alla fine Michele verrà scoperto ed espulso. Solo a decenni di distanza lui e Nicole si rincontreranno. E si riannoderanno, con difficoltà, i fili della storia. Fili di dolore, ma anche di gioia. Entrambi, infatti, hanno sepolto il loro passato. Nicole per senso di colpa: sa che le sue visite possono aver attirato l’attenzione sulla soffitta dove era nascosto il suo amico invisibile. Michele per rivalsa sul suo passato di povertà: «Per dimenticare, non mi sono spaccato il culo nello scavo di una galleria, come mio padre, ma sul piano di una scrivania. Per non dover sopportare la miseria che ha sopportato lui ho lavorato e basta». Però non c’è vera pace per chi non mette a posto i tasselli della propria infanzia...
La narrazione, di finzione ma incardinata sui fatti del tempo, è ben fatta e mai retorica, o peggio ancora buonista. Riesce inoltre a far percepire quanto possa essere pesante una frontiera. Quanto sia difficile passarla, ma anche quanto sia difficile far la cosa giusta per mantenere l’equilibrio tra legalità, identità e solidarietà umana.