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 2018  maggio 31 Giovedì calendario

La Roma di Vanzina rassegnata al presente

«Quanto sei bella Roma quann’è sera, quando la luna se specchia dentro ar fontanone e le coppiette se ne vanno via, quanto sei bella Roma quanno piove…». La canzone di Antonello Venditti è del ’92: dunque sono trascorsi solo trentasei anni da quella appassionata dichiarazione d’amore, fatta con lo stesso impeto che si riserverebbe alla donna che ci ha incendiato i sensi. Eppure già da allora Roma era bella e brutta insieme. Con lo splendore dei suoi monumenti, dei palazzi, dei ponti, del fiume, delle chiese, dei parchi, delle terrazze: insomma con quella «storia infinita» che Enrico Vanzina torna più volte ad evocare nel suo ultimo romanzo, cogliendone l’intatta fascinazione (La sera a Roma, Mondadori, pp. I77, euro 18,50). Eppure, e già dai tempi della “Dolce vita”, sessant’anni fa, Roma, l’Urbe sacra e imperiale ti gettava in faccia le immagini di una disfatta opulenza, condita di ammiccante sensualità ma anche di torpido/torbido, sonnacchioso scetticismo. Magnifica e decadente, insieme, Roma. Un crescendo di decadenza, potremmo dire infierendo. Roma, per Vanzina, è adesso «una città che non ha più ambizioni, non ricorda e non fa progetti (…), è una città che avanza verso il futuro senza più la consapevolezza del suo valore». Dunque, «rassegnata al presente», immersa in un colorito caos che fa pensare a un suk orientale, dove si vende e si svende. Ecco: nel romanzo di Enrico, figlio del grande Steno e, insieme al fratello Carlo, abile creatore della nuova “commedia all’italiana”, in fondo è di questo che si parla: gente di rango, protagonisti della “Roma bene” che «si buttano via». ORIGINE ARISTOCRATICA Si buttano via anche quando al rango – origine aristocratica o, comunque alto livello sociale, magari conquistato a colpi di quattrini, raccomandazioni e marchette- si richiamano, con un orgoglio stizzito e degno di miglior causa. Ma credono ancora a qualcosa? Innegabile che molti abbiano ancora uno “stile” e che rivendichino un ruolo, un’immagine, vendicandosi di chi la mette in discussione e ne denuncia l’ambiguità. Intendiamoci: una fastosa, ammaliante ambiguità. Ne è sedotto anche il protagonista del romanzo, uno sceneggiatore con molti film di successo alle spalle, che frequenta mostri sacri del cinema italiano (chiamati con nome e cognome), broker dell’alta finanza, principesse (ed anche belle fisioterapiste brasiliane), nonché salotti, redazioni giornalistiche, trattorie storiche. Un uomo che ha dei valori e degli affetti, e che, trovandosi a districare il maledetto imbroglio di un delitto (l’uccisione di un giovane attore) in cui lui stesso si trova invischiato, deve cancellare ogni residuo incanto, facendo i conti con la realtà. Cioè con un groviglio di segreti, relazioni clandestine, passioni, risentimenti tenuti rinserrati nel cuore addirittura per decenni, poi improvvisamente dissepolti e confessati con un misto di struggimento e di insolenza. Perché nessuno vuol rinunciare al proprio potere, se non altro quello di un’immagine consolidata nella buona società, tra artifici ed effetti speciali, proprio come al cinema. INFINITE MASCHERE Ora, di fronte a un delitto maturato in ambienti dove si indossano infinite maschere, bisogna appunto capire che cosa è invenzione “cinematografica”, abile recitazione, messa in scena e quel che è invece maledettamente “reale”. E reale è il sesso, declinato in tutti i modi, dunque con ogni possibile “deriva” di perversione, odio e sangue. Con annessi e connessi “sospetti” che toccano tutti quelli che in vario modo hanno conosciuto la vittima (un giovane, prestante attore disposto a tutte le esperienze per raggiungere il traguardo del successo). Anche l’io narrante ha incontrato il bellimbusto e rischia grosso. Ma, ostinato a indagare, sperimenta vittorioso un viaggio dentro la sua stessa coscienza: la risoluzione del delitto scioglie nodi interiori, conferma alcune certezze, altre ne illumina. In ogni caso è liberazione e crescita.