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 2018  maggio 31 Giovedì calendario

L’inchiesta del Corriere sull’aereo che il 3 febbraio 2005 si schiantò a Kabul, con 3 italiani tra i 105 morti.

Kabul, 3 febbraio 2005, ore 15.14. Nevica. I radar dell’aeroporto danno due chilometri di visibilità, un tappeto di nubi a circa 800 metri d’altitudine. Il Boeing 737 d’una compagnia afgana, decollato alle 14.32 da Herat, chiama terra: «Volo Kam Air in arrivo». Il controllore conferma: «Sì, vai». Il pilota russo comunica: «In avvicinamento, Kmf904 livellato a quota 130». Alle 15.18 la torre dà via libera: «Bene Kmf904, sei autorizzato. Riportami quando stai procedendo verso la pista 29». Il pilota dice okay. Sembra tutto normale. E invece saranno le sue ultime parole: da quel momento, misteriosamente, tutto tace. Anche se i tracciati dicono che l’aereo continua a volare per altri 78 secondi. In silenzio, mentre il radar insiste a cercarlo. Dalla trascrizione delle conversazioni a terra, si coglie l’ansia del momento. Fino alle 15.20, all’allarme: «Contatto radar con Kmf904, ti ho perso!». L’aereo prosegue nella sua rotta. E tace. Il controllore ripete: «L’ho perso! Proprio sopra l’aeroporto!». Interviene un’altra voce: «Chiama la torre!». «Che cosa devo dire?». «Di avvertirci quando atterra».
Il volo Kam Air 904 non atterrerà mai. Per nove volte si tenta di riprendere il contatto. Inutilmente. L’aereo s’è già schiantato sul monte Shapiri Gar, 3.200 metri di quota, trenta chilometri da Kabul. 105 morti, i 97 passeggeri e l’equipaggio. Il più grave incidente aereo nella storia dell’Afghanistan. Ancora una tragedia, fra le tante che tormentano il Paese dal 2001. Perché con la caduta del regime talebano e l’arrivo della Coalizione internazionale, la guerra non è mai veramente finita. Lo Stato cerca faticosamente di ricostruirsi. E anche il Boeing decollato da Herat, assieme a 73 afghani, trasporta militari, contractor, volontari, dipendenti d’aziende straniere: nove turchi, sei americani, quattro russi, un olandese, un iraniano. Ci sono anche tre italiani: due tecnici delle costruzioni, Gigi Barattin e Andrea Pollastri, con un ufficiale delle forze speciali, Bruno Vianini, da poco distaccato alla nuova base militare in Afghanistan. «Un incidente per le avverse condizioni meteorologiche»: è questa la spiegazione subito battuta dalle agenzie che citano «fonti investigative occidentali». L’ipotesi, apparentemente, rimane l’unica verità agli atti. Dopo tre giorni di ricerche, gli elicotteri olandesi del contingente internazionale Isaf individuano i resti dell’aereo. Per il recupero dei corpi, serviranno settimane; per le scatole nere, molta pazienza; per capire che cosa accadde davvero, chissà. 
«Di sicuro non fu un incidente. Tanto meno dovuto al maltempo». Tredici anni dopo, due esperti italiani che si sono occupati del caso ribaltano clamorosamente la tesi ufficiale: «Il Kmf904 doveva essere un normale volo di linea su una rotta semplicissima, senza vento e con buona visibilità – rivelano al Corriere della Sera, chiedendo l’anonimato —, invece divenne assolutamente atipico. Per una lunga serie di eventi anomali». Letta la documentazione disponibile, oggi il caso va riaperto: troppi misteri, molte incongruenze, incomprensibili omissioni sia nelle ricerche che nelle indagini. A partire dalle 21 pagine di rapporto finale del ministero dei Trasporti afgano, stilato nel febbraio 2006 sulla base delle relazioni di americani, turchi, italiani e dell’Ntsb (National transportation safety board) di Washington. Molte cose non quadrano. Il meteo, per quanto inclemente, non c’entra: i piloti non chiesero assistenza speciale e in ogni caso c’era la possibilità d’atterrare, senza difficoltà, nella vicina Peshawar. 
Il meteo e le violazioni Gli ultimi minuti prima dello schianto alimentano i dubbi: dai tracciati di volo, emerge con chiarezza che il Boeing punta verso le montagne nel totale silenzio radio. Nessun allarme dall’equipaggio. Nessuna chiamata dai cellulari dei passeggeri: il corpo di una hostess verrà trovato in coda all’aereo, la cintura allacciata, come si fosse preparata a un normale atterraggio. Il pilota comunica via radio d’avere «livellato a quota 130», cioè d’essersi stabilizzato a circa 4 mila metri. Ma il grafico del radar di terra, che registra l’altitudine, dimostra una cosa incredibile: il comandante ha mentito. E non ha seguito la procedura standard d’avvicinamento all’aeroporto, mettendosi invece in una posizione e a una quota diverse da quelle dichiarate, continuando a scendere e smettendo improvvisamente di rispondere alle chiamate del controllo aereo. Errori impensabili per un istruttore di volo esperto come Vasily Simonov, 50 anni, da trenta sugli aerei. «Si tratta di violazioni gravi», dicono gli esperti, «non di errori». Sarebbero bastate a far scattare in cabina di pilotaggio le cosiddette manovre automatiche di scampo, sirene e allarmi sempre più assordanti per evitare il disastro. 
Le scatole nere Sarebbero. Usiamo il condizionale perché – e questa è un’altra anomalia – non esistono registrazioni che spieghino che cosa sia successo a bordo. La scatola nera che incide le voci e i rumori sugli aerei (Cvr) non è mai stata trovata, nonostante il suo alloggiamento a bordo fosse integro e nonostante le sue notevoli dimensioni. Le ricerche, sospese per il maltempo, ripresero inspiegabilmente nove mesi dopo, quando in Afghanistan le montagne sono di nuovo innevate e inaccessibili. Non solo. L’altra scatola nera che riporta i dati di volo (Fdr) fu trovata dopo diversi giorni, in un’area accessibile a tutti. La scatola era integra, ma completamente vuota. Manomessa. Coi dati cancellati. Senza quelle registrazioni, nessuno sa dire se sia mai stato attivato il Gpws, il dispositivo che avverte quando l’aereo sta andando a sbattere. Impossibile ricavare indicazioni sul momento dello schianto, o sapere quel che era accaduto prima: quali i voli effettuati, quali i tecnici che avevano eseguito la manutenzione in aeroporto, quali i turni di lavoro degli equipaggi assegnati al B737… Tutto sparito: «Nessuno può eliminare questi dati quando si è in volo – spiegano gli esperti al Corriere —. C’è stato chiaramente un sabotaggio. Ed è avvenuto a Herat, almeno 25 ore prima del decollo». 
Gli ufficiali americaniMa chi? E perché? Quando si sa dello schianto, i talebani del mullah Dadullah s’affrettano a comunicare via agenzie che loro non hanno abbattuto l’aereo. La Kam Air appartiene al potente generale Abdul Rashid Dostum, uzbeko amico degli americani e alleato del governo Karzai, e ha una pessima fama. Idem per la società Phoenix Air (sede in Kirghizistan) che possiede il Boeing: questi apparecchi spesso trasportano l’oppio dei signori della guerra, sono sulla lista nera Usa e nessun militare americano è autorizzato a viaggiarci. Domanda: che ci fanno a bordo tutti quei funzionari legati alla Coalizione internazionale? E che cosa fanno davvero in Afghanistan? A poco più di tre anni dalle Torri Gemelle, possibile che i controlli di sicurezza sui voli interni all’Afghanistan siano così approssimativi? La strana condotta dell’equipaggio, l’apparente tranquillità a bordo, il mistero delle registrazioni scomparse, l’«impatto strisciato» sulla montagna: gli esperti oggi non escludono un atto di terrorismo. Una bomba o un missile? Sui frammenti del velivolo, stranissimo, non vennero effettuate analisi per trovare eventuali tracce d’esplosivo. Un dirottamento? Nessuna indagine è mai stata fatta sugli assistenti di volo russi e moldavi, né sui due giovani steward afgani che erano stati presi in addestramento, né sui passeggeri non occidentali. S’è trattato del suicidio di chi pilotava l’aereo? Al contrario di quanto si scoprì del pilota depresso di Germanwings, precipitato in Provenza nel 2015, poco si sa del comandante Simonov e del secondo Yuri Zotov, 46 anni, un ucraino con passaporto canadese. Ennesima stranezza: in caso di sciagura aerea, è dal 1990 che i protocolli prevedono l’obbligo d’autopsie tossicologiche sugli equipaggi. Ma gli americani della vicina base militare di Bagram dissero all’epoca di non avere medici legali disponibili e così, unico incaricato, a esaminare le 105 salme fu un anatomopatologo dei carabinieri, il colonnello Carlo Maria Oddo, che già aveva lavorato sullo Tsunami e sull’attentato di Sharm el-Sheikh. «Feci solo l’identificazione sul Dna dei corpi – ricorda Oddo —, nessun’altra indagine. Il mio compito era quello. Del resto, non avevo le attrezzature: una volta raggiunta la certezza d’un nome, quel che restava della vittima veniva subito restituito ai parenti». 
Le ricerche anomale Nella gestione delle indagini ci sono altri aspetti misteriosi o insoliti. L’ente di soccorso inizia le ricerche per il salvataggio 8 ore e 10 minuti dopo l’atterraggio previsto: lo fa senza richiedere il piano di volo, e quindi sbagliando la prima localizzazione di parecchie decine di chilometri. Per tutto quel tempo, ai familiari dei passeggeri si dice addirittura di non preoccuparsi perché l’aereo è arrivato a Peshawar e molti hanno passato la notte a bordo, sulla pista, in attesa di ripartire per Kabul a fine nevicata. Il team internazionale si limita a cinque sopralluoghi e a pochissimi rilievi fotografici: recupera i resti dell’aereo in un raggio ridicolo di 60 metri, solo sulla cresta del monte dov’è rimasto il troncone della coda. Vengono trovati numerosi telefonini ma nessuno ne esamina il contenuto. Oddo arriva da Roma una settimana dopo l’incidente e resta a Kabul una ventina di giorni. Va solo una volta sul luogo dell’incidente, poi lavora in un gigantesco container refrigerato fornito dagli americani. «Un lavoro durissimo»: i corpi, raramente integri, sono un chilometro e mezzo più in basso della coda dell’aereo, sulle pendici dove s’è sbriciolato l’apparecchio. Laggiù arrivano solo gli sherpa afghani, a raccogliere frammenti umani, bagagli, effetti personali, quel che rimane del disastro. Piazzano tutto dentro gerle che poi portano indietro con una marcia interminabile, fino alla consegna davanti al container di Oddo. 
Le sacche trafugateÈ a questo punto che il colonnello italiano si trova coinvolto in qualcosa d’inspiegabile. Quasi un incidente diplomatico. «Una cosa mai vista prima». Scopre per caso che non tutti i body bag gli sono arrivati: «Un collega americano mi disse che altri americani in abito civile, probabilmente uomini dei servizi, avevano ordinato agli afghani di trasferire alcuni corpi alla loro base di Bagram. Mi arrabbiai molto e chiesi l’intervento del nostro ambasciatore, Ettore Sequi, minacciando di mollare tutto e di rientrare subito a Roma». La protesta sembra avere effetto. Sembra: pochi giorni dopo, altri sacchi coi resti umani vengono trafugati e portati a Bagram. Una seconda rimostranza della Farnesina sgonfia presto la polemica: Oddo viene convocato dal comando americano e ringraziato del lavoro, con tanto di scuse e d’attestato di benemerenza. «Mi toccò fare tre conferenze stampa coi ministri afghani, ansiosi di mostrare che tutto era filato liscio». Dopo tredici anni, il dubbio gli rimane: perché gli americani decisero quel blitz, assumendosi il rischio d’una crisi con gli alleati italiani? E chi può garantire che in quei sacchi, restituiti, ci fossero davvero le vittime dell’aereo? 
Le prove mancantiDifficile risalire a qualche verità, oggi. Anche sul fronte italiano: l’Ansv, l’Agenzia nazionale per la sicurezza del volo, non ha mai fatto un rapporto sull’incidente. «A noi dissero solo che l’aereo cadde perché era finito il carburante», raccontano i familiari di Barattin, una delle vittime. L’inchiesta di rito della Procura di Roma fu archiviata: nel rapporto tecnico si parlò di «disorientamento del pilota in fase di atterraggio». Erano i giorni del sequestro in Iraq della giornalista Giuliana Sgrena, i media seguirono poco il disastro. E anche gli indennizzi furono liquidati dalle assicurazioni in tempi rapidi: oggi l’avvocato che i familiari dicono d’avere incaricato, Caroleo Grimaldi, nega d’essersi mai occupato del caso. Quante nubi intorno a quel volo, e il maltempo non c’entra: «L’aereo scese al di sotto della minima altitudine assegnata – ammettono le conclusioni del rapporto ufficiale —. Ma le ragioni di questa discesa non possono essere determinate. Perché non ci sono prove sufficienti». C’è un proverbio afgano che dice: perfino Dio ha a che fare con gli incapaci. Solo incapaci?