La Stampa, 31 maggio 2018
«Un quadro e il mio orgoglio. Così ho parato la depressione». Buffon si racconta in un libro
Sono giorni intensi per Gigi Buffon, tra l’addio alla Juve dopo 17 stagioni e la nuova avventura nel Psg (oggi la decisione Uefa dopo il rosso di Madrid), ma c’è stato un periodo ben più complesso per l’ex capitano della Nazionale, quando la depressione lo colpì duramente nel 2004. Per la prima volta Buffon decide di raccontare a tutti quanto ha passato in quei mesi bui. Questo è un brano tratto dal libro di Alessandro Alciato, «Demoni» (Vallardi, prefazione di Carlo Ancelotti), di cui pubblichiamo un’anticipazione.
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Un tesoro in frantumi resta pur sempre un tesoro. Gigi Buffon soffriva di depressione, «in un periodo per me molto buio, mi è capitato di visitare la Galleria d’Arte Moderna a Torino, e lì ho notato un quadro in particolare». Di Chagall. Si chiama La Passeggiata, un olio su tela dipinto fra il 1917 e il 1918. «Era il 2004. A colpirmi è stata la scossa momentanea che la visione di quell’opera mi ha provocato. Come se qualcuno stesse di nuovo bussando al mio cervello, chiedendogli se fosse in casa. Per qualche minuto mi ha reso contento (...)». Era giovedì mattina, il quadro gli è piaciuto talmente tanto che si è ripresentato al museo il giorno dopo, nel pomeriggio di venerdì, per coccolarlo con lo sguardo. «(...) Ci vuole pazienza, non è che il male possa scomparire dall’oggi al domani, come dall’oggi al domani non è venuto. Il mio percorso è passato attraverso una bella introspezione, senza maschere, scavando nel profondo di quel mio stato catatonico. (...) Nell’ultimo anno avevo perso la gioia di vivere, non davo più sollecitazioni al mio cervello per sottrarlo alla fissazione in cui era caduto. Il quadro di Chagall mi ha insegnato che anche le piccole cose avrebbero potuto, piano piano, trascinarmi fuori da quella melma. Ho iniziato a leggere tanti libri. Mi sono anche iscritto a un corso di chitarra».La partita elettroshock(...) «Ero costretto a far convivere forzatamente il mio malessere, a cui era collegato uno stato di alienazione totale, e il fatto di dover fornire prestazioni elevate sul campo per non creare danni alla Juventus e all’Italia. (...) Sentivo il buio prima che il buio arrivasse per davvero. Peggiorava il corpo, peggiorava la mente, quello stato di me così arrendevole, che non conoscevo, mi accompagnava nel baratro di mille domande. Cosa sta accadendo? Perché proprio a me? Ma non sono bello, ricco e famoso? (...)». «Non potrò mai scordare una sfida di campionato contro la Reggina, in casa». Si giocava il 15 febbraio 2004, al vecchio e non ancora rinnovato stadio Delle Alpi di Torino: «Prima della partita, durante la fase di riscaldamento, mi è venuto un fortissimo attacco di panico. Davanti a tutti. Nessuno si accorgeva di niente e questo mi faceva sentire ancora più solo. (....) Il cuore batteva a mille, il respiro diventava sempre più affannoso, pensavo di morire, pur sapendo che non sarebbe accaduto. (...)». Eccolo, il bivio. L’autostrada o il vicolo cieco. La via tortuosa eppure sicura o la scorciatoia. Dalla scelta dipendeva molto, probabilmente tutto: «Lì, in quel preciso momento, devo dire che sono stato bravo, perché con quel poco di lucidità che mi rimaneva sono riuscito a scavare nelle mie risorse migliori, quelle dell’orgoglio, dell’amor proprio e dell’amore verso il lavoro. Con quel briciolo di razionalità, trascorsi i fatidici cinque minuti, mi sono detto: “Se molli adesso e scegli la scorciatoia, scegli di non giocare, lo farai ogni volta che sarai in difficoltà (...). Mi sono reso subito protagonista di una parata importantissima su Cozza, quando il risultato era ancora fermo sullo 0-0. Alla fine abbiamo vinto noi, 1-0. Quella parata ha rappresentato per me una scossa clamorosa, ha funzionato da elettroshock».