il Fatto Quotidiano, 31 maggio 2018
Locandine e trailer: artisti rubati al cinema
Disegnare il cinema. Le dita che volano sulla tavoletta grafica, una immagine capace di sintetizzare tutto, un guizzo di colori in uno spazio ristretto per convincere lo spettatore che sì, quello è un film che vale la pena vedere. E poi un trailer. Durata meno di un flash. Deve passare in tv, 30 secondi, reggere la velocità di Internet, piacere e poi essere rilanciato sui social. Una guerra spaziale.
“Per questo, come vedi, conservo la maschera di Darth Vader in Guerre Stellari”.
Federico Mauro 37 anni, fa questo di mestiere: il creativo per il cinema, lo anima, lo fa viaggiare nel grande mare agitato della rete. Si racconta nel suo studio-stanza di ragazzo mai cresciuto (piena di maschere, manifesti artistici di film d’epoca, libri di grandi disegnatori con tanto di dedica, foto, pupazzi, giochi). “Una volta – ci dice – c’erano i grandi cartellonisti. Artisti punto e basta. Pittori prestati all’arte del manifesto che hanno fatto la fortuna del cinema italiano”.
Silvano Campeggi, 3 mila “cartelloni” e film come Casablanca, Via col vento. Renato Casaro (che Federico venera come un maestro), mille locandine e manifesti per capolavori come C’era una volta in America, Balla coi lupi, L’ultimo imperatore. “Siamo all’epopea del cinema. Fin da bambino mi incantavo a guardare manifesti e locandine”. Chiediamo dove, in quale pizzo d’Italia gli occhi del bambino Federico si inebriavano delle immagini stampate sui cartelloni, e qui inizia una storia, siamo pur sempre nel mondo del cinema, da Nuovo cinema Paradiso di Tornatore. “Nel paese dove sono nato – è la risposta –: Pratola Serra, un piccolo borgo in provincia di Avellino. A pochi passi dalla casa di mio nonno c’era l’unica sala del paese. Me li ricordo i manifesti, le locandine. Il faccione sorridente di Sordi, la faccia sbilenca di Totò, i ragazzi in smoking di C’era una volta in America. Il mio faro è Renato Casaro, ma parliamo di artisti, di disegni olio su tela”. In tanti da ragazzi sognano il mondo della celluloide, vogliono fare gli attori o i registi. “Io il cinema volevo farlo conoscere”.
Federico sorride e ci racconta il resto. “Soprattutto i miei genitori che non mi hanno mai fatto mancare una videocamera e un computer”. Dopo la laurea in Scienze delle Comunicazioni, l’avventura a Roma. “L’amicizia col regista Ferzan Özpetek e l’arrivo a Fandango, dove mi occupavo solo di web e social”. Un giorno il miracolo, “il produttore Domenico Procacci stava visionando alcuni manifesti per un film che doveva lanciare. Li scartava, non gli piacevano. Mi misi al computer e ne feci uno io. Era la prima volta. Posai il disegno sul tavolo, lui lo vide e disse: ‘Ok, questo va bene’. Dopo tre anni diventai art-director”.
Tanti film, tanto lavoro e la voglia di fare nuove esperienze. In compagnia di un socio, Marco De Micheli, 33 anni. Due ragazzi che mettono su “Vertigo”, divisione creativa di “Demba media group”. “Dietro questa amicizia c’è una storia straordinaria – racconta Federico – un manifesto che mi ha sempre affascinato è quello di Profondo rosso, di Dario Argento. Una donna morta a terra, i capelli neri scompigliati, e il suo volto che si riflette in una pozza di sangue. Quell’immagine la realizzò un giorno il papà di Marco, Osvaldo. Era a casa con un fotografo e gli scattò l’idea. Chiamò la moglie Etta, la fece stendere sul pavimento a faccia in giù in una pozza di liquido rosso e… nacque un capolavoro”.
Stiamo parlando di Osvaldo De Micheli, il più grande creativo del cinema italiano. Stiamo parlando della leggenda, Cinecittà, via Veneto, l’Harris Bar, Cineriz e nomi come Fellini. Federico e Marco mi portano nell’ufficio di Osvaldo. C’è il computer di ultima generazione ma anche il “mirino cinematografico che Fellini regalò a papà”. Il passato e il presente.
“Abbiamo iniziato – racconta Marco De Micheli – in tre, oggi siamo in diciassette. Il primo lavoro per la saga di Smetto quando voglio di Sidney Sibilia, poi sono arrivati capolavori e film di successo come Napoli velata di Özpetek, Loro 1 e 2, Dogman, Ammore e Malavita dei Manetti Bros. Curiamo una trentina di film l’anno”.
Il futuro? “Sempre film e una serie importante, Il nome della Rosa”. Stiamo parlando di una produzione mondiale e di un budget di 31 milioni di dollari, con attori di livello internazionale. Due ragazzi, due passioni. Qual è il vostro segreto, chiedo a Federico e Marco. “Siamo spettatori, divoratori di film, mettiamo questa nostra passionaccia in tutti i lavori che curiamo. E ci divertiamo. Un vero privilegio”.