Il Messaggero, 31 maggio 2018
La «non sfiducia tecnica» con soli 21 voti, tornano le formule da Prima Repubblica
La Prima Repubblica si vendica sulla Seconda e all’alba di un’era nuova che non riesce ancora a profilarsi all’orizzonte, per usare un eufemismo, è tutto un fuoco d’artificio di formule trite da vecchi marpioni democristiani, comunisti, socialisti... Ecco allora, nelle trattative in vista del «governo del cambiamento» che non decolla, il fiorire di un campionario completo di convergenze parallele, consultazioni informali, staffette, governi tecnici, del presidente, balneari, di unità nazionale e d’emergenza. Si è detto di tutto e tentato di più. Compresa la «non sfiducia» che evoca l’esperimento di oltre quarant’anni fa: era il 1976 e il Pci di Berlinguer, arrivato ormai a un passo dal sorpasso, accordò l’astensione a un esecutivo monocolore Dc capitanato da Andreotti.
Oggi l’eventuale Gabinetto di Carlo Cottarelli potrebbe passare con i voti dei ventuno deputati del gruppo misto (su 629 in carica) e 16 senatori (su 318): otto del misto (esclusi gli esponenti di Liberi e uguali) e altrettanti del gruppo per le Autonomie.
I PRECEDENTI
Coincidenza: anche nel 76 era estate, 10 agosto. Il parto generò una compagine che sopravvisse quasi due anni e cadde nel febbraio 1978, passando alla storia come «governo della non sfiducia» (vi suona familiare il non ostacolare il governo di Salvini?) Il Divo Giulio lo battezzò affermando di puntare a «ottenere la fiducia o almeno la non sfiducia». L’Andreotti III passò con 328 astenuti alla Camera, mentre al Senato l’astensione vale voto contrario e si tradusse in un fuggi fuggi dall’aula. Il «governo Berlingotti» fu il coniglio estratto dal cilindro dello stallo tra Dc e Pci, troppo forti entrambi e alternativi. Anche tra Lega e 5 Stelle si è parlato subito di morotee «convergenze parallele». In quasi tre mesi di crisi, un tripudio di consultazioni informali vecchio stile, ricerche affannose di «figure terze», improvvisi «passi indietro», politiche dei due forni, chiamate di grand commis a salvare la Patria. Subito si è immaginata una staffetta Di Maio-Salvini, che ricalca il segretissimo accordo Craxi-De Mita siglato in un convento di suore di clausura sull’Appia, e poi disatteso dal contraente a cui toccò di cominciare. «La staffetta l’abbiamo liquidata», tranciò Bettino al Mixer di Minoli il 17 febbraio 1987. «Anche la Dc ha diritto a governare, ma lo ha già fatto per 40 anni». Aggiunse, in quei giorni per De Mita al cardiopalma: «Gli cederò il posto solo se verrà il mattino a casa mia a servirmi il caffè».
Francesco Damato, editorialista politico di lungo corso, calcola che 22 dei 61 governi succedutisi nelle 18 legislature della Repubblica sono nati d’estate, «tutti a chiusura di lunghe e faticose crisi». Nulla di nuovo sotto il solleone. Dal De Gasperi VII del 26 luglio 1951 in poi. Estiva pure la genialata delle «convergenze parallele», che il 26 luglio 1960 produssero la svolta del centrosinistra dopo lo choc degli scontri di piazza con Tambroni. Il primo governo «balneare» nacque sotto il segno del Leone il 21 luglio di tre anni dopo. D’estate pure la citata «solidarietà nazionale» del ’76, il pentapartito tre anni dopo. Il vocabolario lo stesso, ieri e oggi. Dalle «larghe intese» al «governo di minoranza». Alla Vetrata di Mattarella come di Pertini e Napolitano. Nella sintesi di Stefano Ceccanti, costituzionalista e deputato Pd: «Il governo tecnico è il governo di nessuno che consente di accordarsi senza dirlo e potersi poi dissociare. Il governo di unità nazionale è il governo di tutti. Il governo di grande coalizione è quello di alcuni che in un Parlamento frammentato, pur essendo di norma alternativi, sono comunque meno distanti per fare maggioranza».