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 2018  maggio 29 Martedì calendario

Economia per tutti. Intervista a Richard Baldwin

Diffusione dei saperi. Partecipazione. È anche da un palco che si combattono le semplificazioni che portano a Trump, alla Brexit. E al nostro voto
Per Richard Baldwin, inglese di nascita, PhD al Mit di Boston, oggi economista internazionale alla Graduate School di Ginevra, la più bella notizia degli ultimi giorni è economica: l’imprevista distensione fra America e Cina sul fronte commerciale.
«La guerra dei dazi è sospesa», dice, «e chissà se da questo piccolo segnale potrà germogliare un nuovo modo di interpretare la globalizzazione, più maturo e meno tensiogeno». L’intuizione merita di essere seguita perché Baldwin studia da una vita i problemi («che sono tantissimi») della globalizzazione, ai quali ha dedicato molti libri, l’ultimo dei quali, La grande convergenza, è in uscita in Italia in questi giorni (Il Mulino, 325 pagine, 28 euro) e Baldwin lo presenta a Trento, al Festival dell’Economia, il 31 maggio e il 1° giugno.
Si troverà di fronte un pubblico soprattutto di giovani, molti dei quali, statistiche alla mano, hanno votato per forze che si oppongono disperatamente alla globalizzazione.
Come li “approccerà”?
«Il festival e le altre iniziative di evangelizzazione sono di importanza fondamentale perché la diffusione capillare, approfondita e lucida delle conoscenze economiche è l’unica arma per difendersi dal populismo. I problemi esistono, sono pesanti, ma le risposte vanno elaborate in modo partecipato. È un problema mondiale: in Svizzera, dove vivo, terranno fra due settimane un referendum per abolire i prestiti bancari alle famiglie. C’è dietro chissà quale fumosa teoria sul denaro di origine privata o sui tassi d’interesse.
Un’ispirazione di pancia e non di cervello tipica del populismo. E se viene da qualche outsider, estraneo all’establishment, all’élite come dicono loro, meglio ancora.
Così sono nate la Brexit, Trump, il voto italiano».
Diceva di Trump, allora è finita la paranoia del protezionismo?
«Le racconto una mia esperienza. Fra il 1990 e il ’91 ero uno dei consiglieri economici del presidente Bush Senior. Allora il nemico era il Giappone, il japanese bashing, “dagli al giapponese”, conquistava le copertine dei settimanali. Li si accusava di concorrenza sleale, di sovvenzioni inappropriate provenienti non dallo Stato ma dai keiretsu, enormi conglomerati industrial-finanziari ognuno dei quali grosso come uno stato, di furto di proprietà intellettuale.
Anche loro avevano le loro colpe, come i cinesi oggi.
Ma l’aggressione non risolveva nulla. Solo quando ci si è seduti a discutere in modo sobrio e circostanziato si è sbloccata la situazione e il Giappone è diventato un alleato. Lo stesso si è fatto con la Sud Corea dove i conglomerati si chiamano chaebol, e si deve fare con Pechino: mi piace pensare che sia iniziato un periodo di transizione che potrà durare, mettiamo, cinque anni. Dopodiché, diciamo fra quindici anni, Usa e Cina, saranno solo le più grandi economie mondiali. Il disavanzo commerciale americano si sarà risolto non difendendo le produzioni Usa ma esportando di più».
Sarà una delle convergenze di cui parla nel suo libro?
«Sarà la tappa finale. La prima grande globalizzazione risale al 1820 quando la rivoluzione industriale porta al boom dei trasporti merci e per la prima volta a Londra si mangia pane fatto con grano americano sorseggiando tea di Ceylon dolcificato con zucchero giamaicano su una tovaglia di cotone indiano. La seconda ondata di globalizzazione è del 1990 quando la rivoluzione informatica abbatte i costi delle comunicazioni e del trasferimento di idee.
Si può produrre all’estero coordinando dal quartier generale le attività. Ma qui cominciano i guai, la divergenza: enormi economie a est si riscattano a spese degli occidentali. Crescono diseguaglianze e ingiustizie. Ancora oggi la mancata soluzione di questa divergenza porta tensioni, soluzioni sbagliate, populismi. La convergenza finale è appena cominciata. L’ulteriore evoluzione dell’informatica porta i professionisti dei Paesi occidentali ad applicare i loro talenti su larga base: un ingegnere americano ripara una ferrovia in Sudafrica controllando i robot da remoto perché la telepresenza non è più fantascienza.
I lavoratori collaborano da un capo all’altro del mondo. Se si accompagna una sana diffusione delle conoscenze si affrontano con più serenità i rapporti globali. E quelli interni». ?