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 2018  maggio 30 Mercoledì calendario

«La battuta mai detta su Bin Laden». Si confessa l’autore dei discorsi di Obama

Ero sicuro di poter dare il mio contributo. Speravo di avere finalmente l’occasione giusta. E andò così. Favs e Lovett mi procurarono un invito alla cena. Quando c’era da limare o perfezionare qualcosa, accoglievano di buon grado il mio modesto parere. Inoltre, avendo l’opportunità di vedere ogni bozza del monologo, sapevo in anticipo quali battute avrebbero superato la revisione. Nei giorni precedenti avevo già messo nel discorso quattro battute – un numero non eccessivo, ma più che sufficiente. Ero particolarmente fiero di una battuta che avevo scritto su uno dei candidati repubblicani in risposta al birther movement (il movimento che contestava la nazionalità americana di Obama, ndr).
«Magari vi immaginate che Tim Pawlenty sia americano al 100%, ma avete mai sentito il suo nome per esteso? Eccolo: Tim “bin Laden” Pawlenty.»Mi figuravo la reazione del pubblico, e le risate. Sarebbe stata una cosa epica. Non vedevo l’ora. Ma la cena non fu la grande occasione che mi aspettavo. Pur avendo accesso alle bozze, mi trovai escluso dal cerchio ristretto di chi scriveva le battute. Capii perché Favs e Lovett non si facevano in quattro per includermi nelle loro riunioni nello Studio Ovale. Non erano sicuri di potersi fidare di me, mettendomi al corrente di informazioni per le quali i giornalisti avrebbero dato un dito della mano destra. E mi bruciava essere al contempo così vicino e così lontano.La sera della cena, mentre perlustravo Washington in cerca di un paio di gemelli, Favs, Lovett e Axelrod si riunirono per un’ultima volta con il presidente nello Studio Ovale. Poco dopo la spia rossa del mio BlackBerry cominciò a lampeggiare. Un’altra bozza. Alcune variazioni erano davvero spassose, specialmente la lunga serie di battute che Lovett e Judd Apatow (uno dei nostri silenziosi collaboratori provenienti dal mondo della commedia) avevano scritto per distruggere Trump. Ma dopo avere letto fino in fondo ero come stordito. Avevano rovinato la mia battuta migliore. Il riferimento a bin Laden era stato cancellato. Al suo posto c’era il nome del potente egiziano deposto pochi mesi prima.«Magari vi immaginate che Tim Pawlenty sia americano al 100%, ma avete mai sentito il suo nome per esteso? Eccolo: Tim Hosni Pawlenty».Qualcosa mi si spezzò dentro. Certo, ero uno speechwriter di primo pelo. Certo, bisogna farsi il mazzo per riuscire. Ma questo era assurdo. Come potevano pensare che Hosni facesse ridere? Erano spaventati all’idea che il presidente pronunciasse il nome del terrorista più ricercato al mondo? Non avevano capito che il senso della battuta era tutto lì? (…)Tuttavia la cosa peggiore fu il fatto che, quando mi lamentai con lui, Favs disse che la correzione era stata fatta dal presidente in persona. Be’, allora digli di cambiarla!, pensai. Non sei tu il suo speechwriter? Per la prima volta da quando vi ero entrato ero assolutamente certo che la Casa Bianca aveva bisogno del mio parere. Tirai fuori il mio BlackBerry e, facendo volare i pollici, scrissi furiosamente un documento programmatico. Richiamai il menu opzioni e posi il dito su invia. Poi mi fermai di colpo. Era come se un angelo della burocrazia mi stesse sussurrando all’orecchio. Stai al tuo posto. Staaaaai al tuo pooooosto.
Riposi lentamente il BlackBerry nella custodia. Tornai a casa e indossai lo smoking. Poi, con l’invito in mano, presi l’autobus per il Washington Hilton. Quella sera guardai basito tanta di quella gente famosa da bastarmi per il resto della vita. Notai Amy Poehler che cercava il suo tavolo. Vidi Bradley Cooper che socializzava prima di sedersi. Fissai Tim Geithner, il segretario al Tesoro, che sceglieva tra vari finger food. E dal fondo della sala assistei al monologo del presidente Obama, il migliore che avesse mai pronunciato. Durante la parte su Trump, centinaia di democratici e repubblicani si unirono in una risata bipartisan e derisoria. Mentre la folla applaudiva il presidente, il milionario umiliato si fece rosso in volto, infiammato come una vescica. Bene, ricordo di aver pensato, questa è la sua fine. L’unico aspetto negativo della serata fu Hosni. La mia battuta cadde nel vuoto, come avevo temuto. Non capivo come mai nessuno l’avesse previsto. Alla fine la gente importante uscì dalla sala, mentre io tornai a casa per raccontare ai miei amici che avevo usato l’orinatoio tra Newt Gingrich e Jon Hamm. Malgrado tutto quel glamour, la serata mi aveva lasciato turbato. Avevo avuto ragione a proposito di quella battuta. Avrei potuto sistemarla. Perché nessuno mi aveva ascoltato?Il mattino seguente, come piccolo atto di protesta, feci qualcosa di impensabile. Cambiai lo stato del mio Black-Berry da vibrazione a silenzioso. Poi andai a un festival di musica nel Maryland con due miei amici dell’università, Nick e Claire. Indossavo una T-shirt e delle infradito invece della solita giacca e cravatta. E mi feci una birra, anche se Valerie (Valerie Jarrett, ndr) il giorno dopo doveva fare un discorso e avrebbe potuto chiamarmi per correggerlo da un momento all’altro.Per la prima volta da quando Straut mi aveva assunto sentivo di avere ancora 24 anni. Ma quel giorno di libertà terminò in fretta. Non ero propriamente ansioso di tornare a casa. In auto, seduto di malumore sul sedile posteriore, rimisi la vibrazione al Black88 Berry che si mise a vibrare quasi istantaneamente. Qualche argomento di rilievo da Straut, pensai, o qualche modifica al discorso del giorno dopo. Nessuno dei due. Con mia grande sorpresa era un messaggio di Ben Rhodes, il capo degli scrittori di politica estera. Nell’oggetto era inclusa la parola finale e l’acronimo obl. Ero confuso. Non era previsto alcun discorso di potus (President of The United States, ndr) quella sera, e non avevo idea di cosa significassero quelle tre lettere. Perplesso aprii l’email.
«Considerazioni del presidente Barack Obama sulla morte di Osama bin Laden Casa Bianca 1 maggio 2011»Mi sentii immediatamente felice di non avere premuto invia la sera precedente. La notizia rimbalzò su Twitter pochi minuti dopo. Nick, Claire e io proseguimmo il viaggio verso Washington come fossimo degli schizzati. Quando arrivammo a destinazione cercammo di vedere la cnn in un bar, anche se c’era qualcosa che stonava. Come falene intorno ai riflettori di uno stadio dicemmo tutti istintivamente la stessa cosa: «Andiamo alla Casa Bianca!».Quando arrivammo in centro, la Pennsylvania Avenue era piena di giovani americani, di studenti universitari che sventolavano la nostra bandiera e sollevavano le braccia in segno di trionfo, di gente che teneva in spalla un amico. All’improvviso iniziarono spontaneamente a cantare l’inno nazionale. Poi passarono a una vecchia cantilena, che io avevo sempre associato alla vittoria degli Yankees.«Nah nah nah nah, nah nah nah, hey hey-ey, goood bye». Non avevo mai partecipato a un festeggiamento così chiassoso, nemmeno la notte delle elezioni. Ma guardando i volti di quella gente non vedevo gioia o esultanza. Vedevo sollievo. Per quelli della mia età l’11 settembre era stata l’esperienza più importante negli anni della formazione.Da bambini ci era stato detto che l’America poteva tutto. Poi un terrorista aveva attaccato il nostro paese e ucciso migliaia di nostri concittadini, e non riuscivamo a prenderlo a dispetto di tutti i nostri sforzi. Per un decennio quell’insuccesso aveva gettato un’ombra sulla promessa nella quale eravamo stati educati a credere. Ora quell’ombra era stata soppressa. L’America aveva fatto ciò che l’America si era proposta di fare.«Hey hey-ey, good bye».Il mio BlackBerry si mise a vibrare. Era Valerie, voleva dei cambiamenti sostanziali al suo discorso del giorno dopo. Voleva citare il coraggio del presidente. Voleva parlare della sua ragionevolezza e della sua saggezza, del suo carattere, del modo in cui queste qualità erano già presenti quando l’aveva conosciuto vent’anni prima. Non avevo ordinato nessun blitz, non ero stato nella Sala Operativa, non mi ci ero nemmeno avvicinato. Ma la mattina seguente, quando la folla avrebbe lasciato da un pezzo la Pennsylvania Avenue, sarei tornato. Avrei attraversato i cancelli della Casa Bianca e avrei fatto qualcosa, per quanto piccola, che andava fatto. Con tutta probabilità non ero ancora il meglio di ciò che offriva il mio paese – il mio vecchio professore dell’università l’avrebbe confermato. Ma in quel momento, chiedermi quale fosse il mio posto mi pareva meno importante del fatto di essere lì. In qualche modo, per quanto minimo, l’America contava su di me. In qualche modo, per quanto minimo, facevo parte della squadra. Anche se… Hosni? Avrebbero dovuto scegliere Saddam.© 2017 David Litt
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