La Stampa, 30 maggio 2018
Leoncavallo salvo dopo 88 sgomberi falliti
Ottantotto tentativi di sgombero e sono ancora lì. Ci hanno provato con i manganelli, gli elicotteri, i bulldozer, le ruspe, le pistolettate con cui hanno ucciso Fausto e Iaio tre giorni dopo il sequestro di Aldo Moro, e sono ancora lì. Dal 18 ottobre 1975, sabato di pioggia ricorda chi c’era il giorno in cui fu occupata la prima sede nell’omonima via, il centro sociale Leoncavallo di Milano ha resistito a tutto. Quarantatrè anni dopo sembra finalmente pronta la soluzione. Il sindaco Giuseppe Sala si è preso l’impegno: «La vicenda va avanti da troppi anni e mi piacerebbe risolverla nel rispetto delle regole».
Le molotovNel frattempo, dopo uno sgombero all’inizio degli Anni 90 finito a lacrimogeni e molotov e con la demolizione del centro sociale con i bulldozer chiamati dalla polizia, il Leoncavallo si è spostato in via Watteau. In una ex stamperia di proprietà della famiglia Cabassi, occupata e mai più mollata. Le prime trattative tra Comune e la famiglia di immobiliaristi risalgono all’era del sindaco Albertini. La bozza di accordo tra la proprietà e il Comune è sul tavolo della Prefettura da anni. Il primo a metterci le mani fu il sindaco Giuliano Pisapia (2011). Non se ne fece niente per l’opposizione in Consiglio comunale. La società L’Orologio del Gruppo Cabassi cederebbe al Comune l’area in cambio dei diritti ad edificare con la stessa volumetria su propri terreni alla periferia di Milano, appetibili perchè vicini a Expo. Per questo serve una variante di Piano del Governo del Territorio da approvare a Palazzo Marino. Acquisita l’area, il Comune preparerebbe un bando di pubblica utilità a cui gli occupanti del Leoncavallo potrebbero concorrere.Dalla società L’Orologio sono concilianti: «Ci siamo costantemente dichiarati disponibili a valutare ipotesi compensative. Ma ora ci vuole una rapida soluzione». Le opposizioni di centrodestra a Palazzo Marino e al Pirellone sono invece, come sempre, sul piede di guerra. Gianluca Comazzi capogruppo di Forza Italia: «No a regolarizzare chi opera nell’illegalità». Matteo Salvini, che pure non ha mai nascosto di aver frequentato da giovanissimo il Leo o Leonka, come lo chiamano tutti, ha qualche dubbio: «Bravo il sindaco Sala del Pd... Fare un regalo al Leoncavallo siamo proprio sicuri che sia una priorità dei milanesi?». Il dibattito va avanti così da 43 anni. Daniele Farina, voce storica del Leoncavallo finito pure in Parlamento, fa il sarcastico: «A furia di discutere del Leo mi sono venuti i capelli bianchi. Ma in 50 anni è cambiato tutto. Anche chi lo frequenta». La sinistra extraparlamentare e i ragazzi del Movimento di allora non ci sono più. Nei saloni dove passava pure metà della Walter Alasia si sono visti chef come Aimo e Nadia, musicisti radicali come il sassofonista tedesco Peter Brotzmann e Raul Casadei, Vittorio Sgarbi che ha definito il Leoncavallo «la Cappella Sistina dei graffiti» e pure Enrico Baj che ha una sua opera sopra il baretto. Qui ci sono state la scuola popolare per gli stranieri, un tetto per i migranti, le lezioni musicali del nipote di Richard Wagner e la tromba celestiale di Marcus, il figlio di Karlheinz Stockhausen. Il bilancioUn mondo nuovo che continua ad attrarre migliaia di persone. Tanto che il bilancio sociale dello Spazio Pubblico Autogestito Leoncavallo viaggia oramai sopra i 500 mila euro l’anno. Ma si potrebbe fare molto di più, giura Paolo Volpato, 55 anni, da 20 uno dei motori del Leoncavallo: «Dal 2000 pensiamo di mettere i pannelli fotovoltaici. Siamo pronti a chiedere i finanziamenti anche europei ma non abbiamo la titolarità dell’area. Noi vogliamo solo continuare la nostra attività. Non cambierà nulla se saremo in regola e non più occupanti. A luglio per la ottantanovesima volta tornerà l’ufficiale giudiziario. Ma una cosa è certa: da qui noi non ce ne andiamo».