La Stampa, 30 maggio 2018
Ha salvato 120 soldati feriti dall’Isis. Il “medico” dell’anno è un incursore
Mosul, estate 2017. Pochi chilometri dal fronte, dove i soldati iracheni combattono contro i terroristi dell’Isis. In quel che resta di una casa abbandonata da una famiglia in fuga dalla guerra, quattro militari della coalizione Nato hanno allestito un “casualty collection point”, una sorta di clinica da campo di emergenza. Tra loro c’è Michael T., milanese, 30 anni, primo caporal maggiore del 9º Reggimento d’assalto incursori paracadutisti “Col Moschin” di Livorno, corpo speciale dell’Esercito italiano.
I quattro soldati restano per due mesi in quel rudere: nel vecchio salotto ci sono barelle, strumenti sanitari di fortuna e un piccolo frigo usato per conservare il sangue utile a eventuali trasfusioni. Michael è un “medic”, un paramedico militare specializzato in soccorsi di emergenza, qualifica che si ottiene dopo due anni e mezzo di addestramento in contesti estremi. In quei sessanta giorni a Mosul, l’incursore riesce a salvare 120 soldati iracheni feriti al fronte: gente che arriva in condizioni disperate. «Spesso i feriti erano così gravi da non riuscire neanche a parlare – dice il militare – Ma quanto ti fossero grati lo vedevi dagli sguardi».Un’attività che ha fruttato a Michael il riconoscimento internazionale di Medic of the year, ricevuto nei giorni scorsi negli Usa. «È stata un’esperienza intensa, che mi ha messo alla prova, ma che mi ha dato grandi soddisfazioni – racconta il 30enne, che si è arruolato nel 2010 – L’addestramento da incursore ci prepara a gestire dosi di stress crescente e a essere pronti di fronte a certe situazioni». Ma in Iraq la realtà supera ogni simulazione. I giorni si susseguono senza soste, e può accadere di tutto. «Ci sono stati momenti in cui per due giorni di seguito non ci siamo mai fermati – spiega il soldato – Non esistono turni o riposi».La notte più lunga non tarda ad arrivare. «Una volta, era quasi l’alba, avevamo appena finito i soccorsi notturni e stavamo cercando di recuperare qualche ora di sonno. A un tratto è arrivato un pulmino che portava soldati di rientro dal fronte iracheno. Quel mezzo era stato colpito da un ordigno esplosivo improvvisato, saltato in aria mentre il pulmino passava. Non so se la bomba fosse telecomandata o se sull’asfalto ci fossero dei sensori. Nell’esplosione sono rimasti feriti venti soldati iracheni». Sono le 4, ma l’alba è ancora lontana. «Questa è una situazione per cui ci addestriamo – riflette il militare – ma dal vivo è un’altra cosa, tu stai dormendo e non te l’aspetti. Abbiamo cercato di agire in modo razionale, dando la priorità agli interventi più gravi. Ci siamo trovati di fronte a doppie amputazioni, ustioni, ferite alla testa... È stata dura». E poi c’è stata quella volta in cui Michael ha dovuto applicare una delle manovre più difficili e rare che vengono insegnate nell’addestramento. «È arrivato un ferito che aveva una scheggia di mortaio nel collo – ricorda l’incursore – Per fermare l’emorragia abbiamo usato un metodo innovativo: un catetere urinario applicato al collo. Il ferito doveva essere trasportato da solo nel retro di un’ambulanza, e il rischio che l’emorragia riprendesse era alto. Poi abbiamo saputo che è sopravvissuto. E questa è la soddisfazione più grande, poter aiutare chi ha bisogno, fare la differenza in un contesto del genere. Purtroppo ci sono state anche delle perdite». Paura di morire? «No, non ne ho avuta – risponde – Ma c’è molta pressione, hai in mano vite umane e vuoi fare bene». Dei morti in battaglia, canta De Andrè, ti porti la voce. Poi rientri a casa: i luoghi familiari, il calore delle persone che ami. La quiete. Che dura un soffio. Una nuova missione è già alle porte.