la Repubblica, 30 maggio 2018
«Il calcio non è virtuosismo ma una corsa verso il gol». Incontro con il giovane attaccante dell’Atalanta Musa Barrow
Il ragazzo di Banjul, Gambia, è arrivato nel paese dei balocchi e non si accontenta di salire sulla giostra, vuole il suo nome scritto nella strada delle stelle. Tempo ci sarà. Musa Barrow, 19 anni, centravanti dell’Atalanta, tre gol in serie A e oggetto del desiderio di diversi club importanti, deve realizzare il vaticinio che gli fece il dottore. «Avevo tre anni, ero in ospedale, chiesi a mia madre Fatoumata un pallone e il medico che mi aveva in cura mi disse che sarei diventato un campione». Il padre non c’era già più, morto due settimane dopo la sua nascita, “e io non so nemmeno di quale malattia”. Fatoumata, maestra elementare, ha badato a lui e agli altri tre figli, «sempre assecondando il mio sogno a patto che fossi bravo a scuola».
La sua non è una storia di povertà assoluta, semmai relativa.Famiglia della piccola borghesia, una casa di mattoni e non di fango. La strada come palestra per la vita. «Il Gambia è come il Brasile tutti giocano sui campi in terra. Si mettono due sedie per fare le porte e ci si sfida quattro contro quattro. Con palloni regolari però, ce li regalavano i turisti venuti dall’Europa. Io ho avuto la fortuna di misurarmi con i più grandi di me, i coetanei dei miei fratelli. Così si diventa forti».
Non il più abile, nel suo giudizio, altri lo erano «ma io ero più intelligente perché ho capito subito che il calcio non è virtuosismo, il calcio è semplice, bisogna filare dritti verso il gol». Si alzava alle sei del mattino, colazione, preghiere (è musulmano credente), e via ad allenarsi prima delle lezioni, poi anche dopo, fino al tramonto, «bim, bum bam, tiri da ogni posizione, e i vicini cominciavano a urlare basta Musa con questo rumore, vai a letto a dormire». In testa il mito del Real Madrid e di Zinedine Zidane, «tanto che mi ero tagliato i capelli sopra visto che lui non li ha», una passione per Totti.
Lo nota, durante una missione africana alla scoperta di talenti, Maurizio Costanzi, il responsabile del settore giovanile dell’Atalanta, ma è troppo presto, è poco più di un bambino. Lo rinota, più tardi, l’avvocato Luigi Sorrentino, procuratore, che gli propone un paragone: «Assomigli a Kakà». Si fa avanti con la mamma. Ci vuole poco per convincerla a lasciarlo partire per l’Italia con la promessa che continuerà con la scuola: «Lei era addolorata perché mi perdeva ma non voleva ostacolarmi». Musa si mette a studiare come viviamo noi occidentali per essere preparato al grande salto.
Bergamo doveva essere nel suo destino perché è proprio lì che finisce, nell’agosto 2016, meno di due anni fa, alloggiato alla Casa del Giovane come tante altre promesse. «Appena arrivato la sera me ne stavo seduto su una sedia per passare il tempo, mi annoiavo. Finché una volta ho preso coraggio e ho attraversato un tunnel che porta in centro. Ho scoperto una città bellissima e finalmente ho capito perché ne dicevano meraviglie».
Della sua cultura, delle sue radici, si trascina l’abitudine ad abbassare la testa quando parla, e così fa anche durante questa intervista: «Da noi, quando si ha davanti una persona più anziana, come forma di rispetto non la si può guardare negli occhi. Il presidente Antonio Percassi mi ha chiesto di alzare lo sguardo. Sto cercando di abituarmi».
In campo invece, sì che è alta la testa. Il primo anno è utilizzato solo nelle amichevoli.All’allenatore della Primavera Massimo Brambilla dice che è un mediano. Il giorno che si ritrova senza punte, il mister lo prova centravanti: due reti. Non lascerà più il ruolo. Ci sono molte aspettative su di lui quando, è storia recente, comincia il campionato dei giovani. «Ma sbaglio la prima partita, un palo, un assist, niente gol. Sono deluso ma un amico mi sprona, vedrai che d’ora in poi segnerai sempre». Ne fa 26 e a gennaio lo portano di peso in prima squadra. Il 10 febbraio l’esordio in serie A a Crotone: «Quando Gasperini mi chiama per entrare sono emozionato, anche troppo.
Diventano decisive le parole di Gollini, il portiere di riserva che era in panchina con me, “calmati, vai e gioca come sai, questo è il tuo giorno”, ho tirato un sospiro di sollievo mi sono messo tranquillo». Il 18 aprile, a Benevento il primo gol da professionista, seguiranno quelli al Genoa e alla Lazio: «Nel tunnel incroci gli avversari. Ho visto da vicino Icardi e mi sono detto: voglio essere come lui. Con la Lazio mi sono voltato, c’era Milinkovic-Savic e ho pensato: lui vorrà fare qualcosa per il suo nome ma anche io devo fare qualcosa per il mio se voglio essere alla sua altezza».Seppur così repentino, al grande salto si sentiva pronto: «Da alcuni mesi mi allenavo coi grandi e ho capito che non è come nelle giovanili. Con i miei coetanei sono più spensierato devo pensar solo a fare gol. In serie A il problema non è il gioco ma la testa perché devi fare molte cose. Essere più veloce, più fisico, aiutare la squadra. Se sbagli si arrabbia il mister, i tifosi ti fischiano e tu devi cercare di farli contenti, regalare loro una gioia perché sono venuti per te».I fischi, giura, lo caricano ancora di più. I “buu” razzisti «mi entrano da un orecchio e mi escono dall’altro». Sostiene di non aver subito episodi particolari di discriminazione e comunque afferma filosoficamente: «Nella vita ci si deve accettare per quello che si è. E del resto ci sono anche molti neri a cui non piacciono i bianchi». In prima squadra l’ha preso sotto la sua ala protettrice Andrea Masiello: «Scherziamo sempre, lui mi chiama mamma Africa e io lo chiamo mamma Italia». I compagni della Primavera sono solidali e contenti dei suoi successi: «Spesso vado a cena a casa di Bolis, il capitano, sua madre quando ho fatto il primo gol in A mi ha mandato una foto dove indossava la mia maglia».Ora parte per le vacanze a Banjul.«Starò con la famiglia, passeremo insieme il Ramadan. Quest’anno ho posticipato il digiuno di cinque giorni perché non era finito il campionato. Per motivi di lavoro la mia religione lo permette».
Forse lo chiamerà la nazionale. Si sente, ormai, «un po’ l’ambasciatore del mio Paese dove tutti adesso guardano in tv l’Atalanta». Vale, pare, già venti milioni ma non se ne cura. Di certo, in tre mesi ha svoltato, «come dice Cristian Raimondi (ex giocatore ora nello staff tecnico nerazzurro, n.d.r.) questo è il prodigio del calcio». In valigia ha messo magliette e scarpe da calcio da donare agli amici e ai fratelli, un iPad e un profumo «il più buono» per la mamma e la fidanzata. Nel confessare che ha una ragazza abbassa ancora di più la testa: «Si chiama Amba, ha un anno più di me, studia da giornalista, stiamo insieme dal 2013. Ma questo, se permettete, è il mio privato».