Corriere della Sera, 30 maggio 2018
Due romanzi di Franco Cordelli
«Nella letteratura era possibile credere. Nella realtà, non era possibile», ha scritto Franco Cordelli nella nota finale della riscrittura di Procida, il suo romanzo d’esordio, la cui prima edizione risale al 1973. La riscrittura arrivò ben 33 anni dopo, nel 2006, e viene ora riproposta da Theoria (con postfazione di Andrea Caterini), in contemporanea con Guerre lontane, quarto romanzo di Cordelli, del 1990 (postfazione di Niccolò Scaffai). «Solo qualche anno dopo – continuava Cordelli pensando a quel 1973 – avrei capito che la soglia tra l’una e l’altra è impercettibile. Solo oggi sono in grado di affrontare l’amara verità, cioè questa amara realtà, che non ci dà tregua». È un’affermazione che potrebbe valere per tutti i romanzi di Cordelli: sul corpo a corpo senza tregua che si ingaggia tra la letteratura e la vita, cioè la morte. Cordelli non fa che mettere in campo voci che dialogano con la (propria) morte, con la propria fragile identità in relazione alla fragile identità altrui, e anche con l’identità incerta della letteratura.Non credo che Cordelli sia un suo ammiratore incondizionato, ma forse sottoscriverebbe questo pensiero di Philip Roth: «Un bravo medico non è in guerra col suo mestiere, un bravo scrittore invece è perennemente in lotta col suo lavoro. In molte professioni c’è un inizio, una fase centrale e una fine. La scrittura è un ricominciare da capo di continuo». Nei due libri che vengono riproposti la questione del ricominciare, dunque della provvisorietà e dell’incompiutezza dell’opera letteraria, è per ragioni diverse cruciale. È all’origine di Procida, se dobbiamo dar retta all’autore, che a posteriori ne rammemora la faticosa genesi: «Mi sono messo a scrivere pensando: ricominciamo da capo, ricomincio dalla forma più elementare che vi sia, quella del diario, che sia vero o finto non importa». Il ricominciare è la sostanza stessa di Guerre lontane, tenendo conto del fatto che si parte dal desiderio impossibile di ricomporre, sia pure per lacerti, un quaderno perduto su cui l’io narrante, il venticinquenne studente di restauro Lorenzo, aveva annotato gli appunti per la messa in scena di un’opera teatrale: il quaderno era stato smarrito e forse distrutto da Margherita, la donna legata a Bruno, il regista dello spettacolo la cui messa in scena, proprio nel suo realizzarsi, avrà un esito tragico.
Diversamente da Roth, Cordelli non costruisce personaggi ma modella voci. Naturale che questa attitudine sia una forma di resistenza, quasi eroica, a tutto ciò che oggi si impone con successo: la trama, gli intrecci con i loro protagonisti inequivocabili, la traducibilità della lingua. Si dirà che si tratta di un’energia già consumata negli anni della neoavanguardia: ma non è così, perché quella tensione, che allora era soprattutto estetica o estetizzante e spesso giocosa o parodistica, oggi rivela la sua carica più drammatica nei pochissimi scrittori, come Cordelli, che ancora resistono nel pensare alla letteratura come a un equilibrio precario e sempre perfettibile tra struttura, stile e sentimento (viene in mente la meravigliosa definizione che Andrea Zanzotto diede della poesia: «Il rigore di un sentimento che tende a farsi espressione, forma»).
Ciò spiega anche il ricorrere, cui si accennava, del genere diaristico, adottato da Cordelli anche in Procida e in Guerre lontane come una sorta di grado zero del romanzesco: ma se il diario è, anzi sarebbe, «la forma più elementare» di narratività, è anche quella che più di altre concede libero spazio alla voce (alle voci) contro l’invadenza del personaggio, con i suoi rassicuranti caratteri fisici e psicologici. Ciò non toglie che in Guerre lontane, il «romanzo di un tradimento», il narratore metta in gioco sin dall’incipit la questione e l’illusione del tempo insita nell’opzione del diario: «Questa data, primo aprile, l’ho appena scritta e già è falsa. Cioè, è vera ma si riferisce all’anno scorso». Giustamente, Scaffai fa notare quanto, in Guerre lontane, sia cruciale la riflessione sul tempo, che comporta un’interrogazione continua sul romanzo e un’ammissione di resa quanto alla possibilità di una costruzione romanzesca: «La dinamica degli eventi, io non la so dominare – e poi mi ripugnerebbe di farlo; preferisco, il tempo, lasciarlo fluire».
Perché il narratore dice di essere respinto dall’idea di dominare il tempo e dunque dal progetto di una narrazione più o meno lineare o (crono)logica dei fatti? Perché i fatti sono stati narrati (e continuano a essere narrati) in abbondanza e forse fino alla nausea: quel che conta è il dopo, sono gli «stati mentali» prodotti dai fatti, come intuisce il protagonista di Procida, un intellettuale che lascia Roma per rifugiarsi nella sua catapecchia sull’isola campana dove prendere appunti sulle sue giornate vuote (vuote finché non arriva la figlia e non interviene il cadavere di una donna). «È una narrazione che non ha oggetto, che di fatto non ha nulla da raccontare, o è costretta a raccontare proprio quel nulla», osserva Caterini. È una narrazione insieme sfiduciata e fiduciosa: affidata a voci postume, che pur sapendo di venir dopo lanciano la loro sfida tanto disperata quanto eroica. Ma senza darlo a vedere, grazie alla pacatezza di uno stile privo di increspature nervose, fermo, classico, apparentemente inattaccabile: «C’è un odore di chiuso e di vecchio, tanti odori diversi, le mille alchimie del tempo: gli odori delle persone e quelli degli armadi, e dei tappeti impregnati di imponderabile sporcizia, logorati dall’uso. Io resisto impavidamente all’orrore. Intanto conto i giorni».