Corriere della Sera, 30 maggio 2018
Il film rinnegato di Bergman: spy story sulle torture in Urss
Non si finisce mai di scoprire Bergman. È appena venuto alla luce lo script scritto per la Rai sul Vangelo (che poi fece Zeffirelli) ed ecco che la Cineteca di Bologna per il Festival del cinema ritrovato (23 giugno-1 luglio) annuncia la prima proiezione in Italia, eccezionalmente concessa dalla Fondazione Bergman, di Ciò non accadrebbe qui, da un romanzo di Waldemar Brogger, film girato nel 1950 in clima da guerra fredda e mai apparso nelle retrospettive del maestro che disconobbe quell’opera ferocemente anti-comunista, quasi maccartista, commissionata dalla Svenk Filmindustri e girata di malavoglia e anche con la sinusite.
Il titolo dell’opera, che uscì il 23 ottobre 50, significa che in Svezia, così pacifica che non ricorda neppure cosa sia una guerra, come si dice, sarebbe impossibile una dittatura, perché ci sono gli anticorpi. È lo stesso concetto espresso dall’americano Sinclair Lewis nel libro Da noi non può succedere che sembrava una premonizione, scritta decenni prima, sul trumpismo.
Bergman firma un film che è un oggetto misterioso nella sua filmografia che poco si è occupata di politica (a parte La vergogna e L’uovo del serpente) o guerra. In questa storia, il Maestro nato il 14 luglio di cento anni fa a Uppsala (infatti l’omaggio bolognese comprende il restauro del Settimo sigillo e un documentario della Von Trotta) mostra invece i disastri che combina una dittatura, nello stato di Liquidatzia che assomiglia molto all’impero sovietico: minaccia la Svezia, tortura esuli e oppositori (il «trattamento» dura 24 ore), perseguita i fuggitivi, inventa le barriere elettriche da lager e minaccia la terza guerra mondiale. La rifugiata protagonista, tornata a Stoccolma (Signe Hasso, attrice lanciata in America come la «seconda Garbo») sposa un agente perfido che tiene sempre con sé una cartella coi nomi delle spie e degli informatori, ma resta pure in contatto con gli americani sperando in un futuro migliore.
Quando la donna uccide il marito, si scatena la caccia: gli oppositori si riuniscono come carbonari dietro lo schermo di un cinema dove si proietta Paperino, sgommano le auto nel centro di Stoccolma, finché il cattivo Akta Natas (vero Satana in anagramma) si suicida e la donna renitente alla dittatura è salvata per miracolo su una nave in partenza. Privo dei primi piani bergmaniani, dei suoi silenzi, pieno di fughe e corse in auto, potrebbe essere un qualunque film di spie anni 50 americano di Hathaway con Richard Widmark cattivo, invece lo firma di malagrazia un regista che già si era fatto notare per delicatezza di sguardi – e che nello stesso anno gira Un’estate d’amore.
Nel prologo di Ciò non accadrebbe qui, su biblici cieli tempestosi, si dice che ogni riferimento alla realtà non è puramente casuale, ma forse è proprio il tono manicheo e ultimativo che ha fatto disconoscere da Ingmar la sua opera in cui si leggono comunque in filigrana alcuni temi congeniali: i discorsi del pastore, le tavole di un teatro, la quotidiana congiura tra uomo e donna che rientra in un più vasto doppio gioco.
Ma su tutto domina la retorica sul popolo svedese e «il diritto di essere felici», si accusa il falso eroismo del regime, si dice che non si può cambiare il mondo così, e la filosofia è che alla fine di ogni rivoluzione in scena restano solo gli assassini.