Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  maggio 30 Mercoledì calendario

Bartali oltre il mito, un vero eroe

Il terziario domenicano fra Tarcisio di Santa Teresa del Bambin Gesù, al secolo Gino Bartali, rifiutava di salire sulla bicicletta la domenica mattina, se non era prima andato alla Santa Messa. Tanto, ridevano gli amici fiorentini, «l’era bono de dare una cenciata a tutti pur partendo dopo». La storia della mitica vittoria al Tour de France del 1948, che lo santificò come patrono della riconciliazione per aver miracolosamente placato gli animi ribollenti dopo l’attentato a Palmiro Togliatti, deve però essere riscritta. Almeno in parte.
Lo sostiene Stefano Pivato, già rettore a Urbino e autore di libri come Il secolo del rumore. Il paesaggio sonoro nel Novecento, I comunisti mangiano i bambini. Storia di una leggenda o Al limite della docenza. Tornando a un tema caro anni fa, cioè il ciclismo o meglio il «velocipedismo» degli albori osteggiato dai cattolici (che ci vedevano «non solo uno strumento eccessivamente moderno ma addirittura “una vera anarchia” assimilabile all’ermafroditismo») lo storico spiega in Sia lodato Bartali (Castelvecchi) che quel trionfo parigino merita sì di esser ricordato tra le memorie politiche del Paese, però...
Per cominciare, basta con la leggenda del Fausto comunista («Coppi accoppaci Bartali», si leggeva sui muri) e del Gino baciapile. Che «fra Tarcisio» fosse cattolico, intendiamoci, non si discute. Se tutti i campioni si ritrovarono cuciti addosso soprannomi tipo «Diavolo rosso (Gerbi), L’airone (Coppi), La locomotiva umana (Guerra), Il fornaio volante (Bergamaschi), Il signore della Montagna (Binda), Il leone delle Fiandre (Magni)», spiega Pivato, quelli bartaliani (eccezion fatta per Ginettaccio) «fan tutti riferimento alla sua fede: Il pio, Il magnifico atleta cristiano, L’arcangelo della montagna, L’arrampicatore divino...». 
Fotografato «a un polveroso quadrivio mentre inghirlanda un Tabernacolo» spiega: «Ho pregato la Madonna di Lourdes che mi facesse vincere ancora e mi ha esaudito». Lo stesso Pio XII lo esalta: «Guardate il vostro Gino Bartali, membro dell’Azione cattolica: egli ha più volte guadagnato l’ambita “maglia”. Correte anche voi in questo campionato ideale, in modo da conquistare una ben più nobile palma».
Ma Fausto Coppi, prima di finire fra i «cattivi» per il rapporto con la Dama bianca, era davvero comunista? Risponde «La voce del parroco» di Coriano, Rimini: «Alcuni che pur volentieri simpatizzerebbero per Bartali, sostengono però Coppi per il semplice motivo che il Fiorentino, essendo dell’Azione cattolica, puzza un po’ troppo di prete e non sanno che, se puzza di prete Bartali, Coppi puzza come Gino, se non di più, perché non solo è iscritto all’Azione cattolica, ma è addirittura vicepresidente dell’Associazione Uomini di Azione cattolica della sua parrocchia». 
Di più ancora: alla vigilia del 18 aprile 1948 ha firmato col rivale un appello promosso da Luigi Gedda nel quale gli «uomini del pedale» ricordano «a tutti gli amici il richiamo che il Santo Padre, nel giorno della Pasqua, ha lanciato al popolo italiano: “La grande ora della coscienza cristiana è suonata”». Macché, la devozione a «Gino il Pio» e gli estasiati racconti dei giornali cattolici per «la saldezza dei suoi garretti, la semplicità del suo sorriso, la schiettezza della sua fede», finiscono per schiacciare Fausto dall’altra parte. Gino è bianco? Fausto dev’esser rosso.
Eccoci al giorno fatale. Ricorderà il cantastorie Marino Piazza ne L’attentato a Togliatti, ballata poi ripresa da Francesco De Gregori e Giovanna Marini: «Le ore undici del quattordici luglio/ dalla Camera usciva Togliatti,/ quattro colpi gli furono sparati/ da uno studente vile e senza cuor». A sparare al segretario del Pci, che si salverà grazie a un intervento chirurgico, è un giovane nazionalista fanatico, Antonio Pallante. Allarme in tutto il Paese: «Hanno sparato a Togliatti, è la rivoluzione».
In realtà, scrive Pivato, «né il 14 luglio e neppure nei giorni successivi ci sarebbe stata la rivoluzione». Certo, scoppiano scontri sanguinosi e il bilancio sarà pesante: da 14 a 44 morti (e già l’abisso tra le cifre la dice lunga sui dubbi...) a seconda delle stime. Ma, contrariamente a quanto teme chi pensa a un complotto, «è fuor di dubbio» si tratti «di una rivolta spontanea, una forma di jacquerie che coglie di sorpresa il Partito comunista ma anche la Cgil che si adoperano per far rientrare quelle proteste». Fatto sta che 48 ore dopo l’attentato al leader comunista «la situazione nel Paese è tornata alla normalità. Il 16 luglio l’ordine è ripristinato». 
E la mitica vittoria al Tour? «L’impressione è quella di una memoria costruita a posteriori attorno al ruolo taumaturgico di Bartali», risponde lo storico. Occhio alle date: «Il 14 luglio, il giorno in cui Togliatti viene ferito, coincide con l’anniversario della presa della Bastiglia e il Tour osserva un giorno di riposo. Il giorno successivo, il 15 luglio, Bartali si aggiudica la Cannes-Briançon e Luison Bobet conserva la maglia gialla che aveva vestito il 5 luglio. Il 16 Bartali vince la Briançon-Aix-les-bains e indossa la maglia di leader che porterà fino a Parigi, il 25 luglio». È a questo punto che «la stampa, soprattutto quella cattolica, saluta Bartali come salvatore della patria. Ma fra il giorno dell’attentato e la vittoria finale di Bartali sono trascorsi undici giorni e le piazze sono pacificate da tempo».
Lo riconoscerà lo stesso Montanelli: la vittoria di Bartali «funzionò da calmante dei bollori, allentò la tensione, sviò l’attenzione» ma «la rivoluzione non sarebbe scoppiata in nessun caso. Non scoppiò perché Togliatti, lo sappiamo bene, non volle che scoppiasse». Eppure, alla vigilia del settantesimo anniversario di quel trionfo parigino che esaltò l’Italia intera, unendola intorno all’impresa, «Ginettaccio» merita un ricordo ancor più riconoscente: «Fra il 1943 e il 1944 il cardinale di Firenze, Elia Dalla Costa, allestisce una rete clandestina per il salvataggio degli ebrei rifugiati o profughi. Bartali, incaricato direttamente dal cardinale fiorentino, compie vari viaggi in bicicletta dalla stazione di Terontola-Cortona fino ad Assisi trasportando documenti e fototessere nascoste nei tubi della bicicletta. Bartali compie varie volte il percorso e, secondo le testimonianze, contribuisce al salvataggio di circa 800 ebrei». 
Sapeva di rischiare grosso: nel 1939 Albert Richter, un ciclista tedesco campione del mondo tra i dilettanti, era stato fermato dalla Gestapo mentre tentava di portare in Svizzera, nascosti nei tubolari della bicicletta, migliaia di marchi destinati a una famiglia ebraica. Ed era stato «suicidato». Altri si sarebbero tirati indietro. Gino, che schedato dalla polizia mussoliniana come «esponente dell’Azione giovanile cattolica e non del fascismo», no. Senza mai vantarsi, in un dopoguerra stracolmo di sedicenti «antifascisti», di quei gesti eroici che lo avrebbero fatto riconoscere come «Giusto tra le nazioni» dallo Yad Vashem, l’Ente per la Memoria della Shoah. Restano di lui, oltre alle vittorie, una miriade di aneddoti. Uno su tutti, ricordato da Gianni Mura. Presentazione di un libro su Gianni Brera a Milano. C’è anche il vecchio Gino, sugli ottanta: «Uno degli organizzatori aveva allertato un autista: verso mezzanotte sarà stanco e vorrà andare a dormire. Esattamente alle 3:55 Bartali, dopo aver raccontato non so cosa a Fabio Capello, disse: “Oh, ragazzi, qui o salta fuori un mazzo di carte o me ne vo a letto”».