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 2018  maggio 29 Martedì calendario

A mia!?

Ma perché Mattarella l’ha fatto? Se davvero voleva agevolare il tanto auspicato governo politico, per parlamentarizzare e costituzionalizzare le due forze “antisistema” uscite trionfanti dalle urne, perché non ha raccolto l’assist che gli porgeva il prof. Savona confermando fedeltà all’Europa e all’euro, insieme all’auspicio da tutti condiviso (anche, pubblicamente, da Mattarella) di una Ue diversa, più forte ed equa? Perché ha silurato un governo politico espresso dalla maggioranza parlamentare per sostituirlo con un governo tecnico espresso da un’infima minoranza (il Pd), per giunta spacciandolo per “neutro”? E perché s’è presentato alla stampa a venderci un frittomisto di frottole (lo spread e il debito pubblico attribuiti agli unici partiti che in questi 7 anni non hanno mai governato) e illazioni (le profezie di sventura, un po’ meno scientifiche dell’oroscopo, sui nostri risparmi in fumo a causa del prof. Savona)? Le possibili risposte sono soltanto tre.
1) Un intervento esterno tanto violento e irresistibile quanto illegittimo e inconfessabile. Sappiamo per certo che né la Bce di Draghi né il governo francese (Macron aveva appena telefonato a Conte, “ansioso di lavorare insieme”) hanno espresso timori per il nuovo governo e il suo ministro dell’Economia tali da giustificare l’incredibile niet, anzi nein del Presidente italiano. Anche la Commissione Ue va esclusa, visto che il commissario all’Economia Moscovici era parso conciliante dopo le pubbliche rassicurazioni del premier incaricato sul rispetto degli impegni europei. Resta il governo tedesco, bersaglio in passato degli strali di Savona: se la prima gallina che canta è quella che ha fatto l’uovo, colpiscono le minacce del portavoce della Merkel: “Ovviamente ci saranno dei problemi. Anche con la Grecia di Tsipras ce ne furono, e poi ci siamo accordati”. Per non parlare del ministro tedesco alla Ue, Michael Roth, che pretende “presto un governo stabile pro europeo”. Se si scoprisse che il veto del Quirinale è figlio di un diktat tedesco, potrebbe persino avere un senso l’impeachment invocato da M5S e FdI, altrimenti inutile, macchinoso e forzato se non come reazione impulsiva al golpettino bianco.
2) Mattarella, pressato dai poteri marci che dominano l’Italia come una colonia, alla fine non se l’è sentita di dare il via libera a un governo di cambiamento senza prima affermare la pretesa incostituzionale di dettargli la linea politica (che spetta al premier). Si è fatto portavoce dell’Ancien Régime allergico ai cambiamenti che fin da subito ha vomitato come corpi estranei i marziani Di Maio e Salvini.
Ed è ricaduto nel tragico e miope errore del predecessore, che cinque anni fa pensò di esorcizzare i 5Stelle tenendoli fuori con ammucchiate sempre più improbabili e “riforme” sempre più impopolari, nella speranza che sparissero da soli, col risultato opposto a quello desiderato: gonfiare le loro vele e pure quelle della Lega. L’eterogenesi dei fini del pompiere che diventa piromane e, anziché spegnere l’incendio, getta altra benzina sul fuoco è tutta nella scena di Cottarelli e delle sue cariatidi al governo coi voti dell’unico partito che giurava opposizione a qualunque governo. È il replay del ritorno dei decrepiti re “codini” imparruccati e impomatati, rimessi sui troni nel 1815 dal Congresso di Vienna dopo Napoleone. E avrà l’unico effetto di regalare altri voti alla Lega, forse al M5S, certamente all’astensione. Così il prossimo governo che Mattarella dovrà battezzare non sarà il Salvimaio con Savona, ma magari un Berlusalvini che ci (e gli) farà rimpiangere Savona.
3) Dopo lungo letargo, Re Sergio s’è fatto dominare da un qualche residuo di ombrosità e stizzosità siciliane nascoste nel suo Dna, trasformando una ripicca personale in una catastrofe istituzionale. Come il suo corregionale Filippo Mancuso che nel ’95, dopo una vita trascorsa a obbedir tacendo, trascinò il governo Dini a un passo dal baratro perché, sfiduciato dagli altri ministri e dalla maggioranza per la sua guerra personale alle Procure di Milano e Palermo, non voleva saperne di dimettersi. Indro Montanelli, sul Corriere, lo paragonò a un appuntato lavativo della Divisione Messina che aveva conosciuto sul fronte greco-albanese della Seconda guerra mondiale: “Era siciliano, si chiamava Rapisarda ed era impossibile coglierlo a corto di scuse per sottrarsi alla dura vita ed ai pericoli della trincea. Giustificava, ed anzi nobilitava, questa sua renitenza dicendo che non voleva sparare contro i greci, che a lui non avevano fatto nulla di male… Ma un giorno che in trincea dovette fare capolino, fu colpito di striscio alla guancia da una scheggia di mortaio. Greco. Rapisarda si terse il sangue della ferita, poco più che uno sgraffio, si guardò la mano, e con aria niente affatto impaurita, ma tra stupefatta e indignata, esclamò: ‘a mia!?’, a me!? Da quel momento il lavativo scomparve, ed al suo posto subentrò una specie di kamikaze che, dichiarata ai greci una sua guerra personale, senza nessun rapporto con quella dell’esercito italiano, vi si condusse in modo tale da guadagnarsi, nello spazio di pochi mesi, altre due ferite ed altrettante medaglie al valore”. I Rapisarda e i Mancuso – aggiungeva il grande Indro – “escono pari pari dalla galleria di quei personaggi siciliani che popolano la narrativa del siciliano Pirandello… Convinti di qualche loro ragione o diritto, cominciano ad arzigogolarci sopra, ne fanno un chiodo fisso della loro esistenza, picchiandoci sopra, se il martello gli si spezza, la testa: ed alla fine, sordi a ogni voce di fuori, ci si murano dentro, come il protagonista della ‘Giara’… Bel mi’ Rapisarda che la guerra la faceva per ‘a mia’. Ma lo diceva e rimase sempre ‘appuntato’”. Non Capo dello Stato.