La Stampa, 29 maggio 2018
«Alla Carnegie Hall porto Rossini, a casa ascolto Celentano». Ritratto del giovane direttore d’orchestra Filippo Arlia
Una sede talmente prestigiosa, la Carnegie Hall di New York, da incutere timore. Figurarsi a 28 anni, italiano chiamato a dirigere, questa sera, l’unico tributo che la città rivolge al centocinquantesimo anniversario della morte di Gioacchino Rossini. Filippo Arlia è sereno e durante le prove generali scherza con i membri della New England Symphonic Ensemble, l’orchestra che dirigerà con brani tratti dal Barbiere di Siviglia, L’Italiana in Algeri e Semiramide. «Con Rossini è così: edizioni diverse hanno partiture diverse per cui succede che i musicisti suonino note che io non ho nella mia. A me va bene: l’importante è che siano belle».
Il giovane dei recordClasse 1989, nato a Cosenza in una famiglia di musicisti, Arlia è abituato ai record: è il più giovane direttore di conservatorio in Italia – il Tchaikovsky di Nocera Terinese – e ha all’attivo oltre 350 concerti come solista e direttore, ospite dei palcoscenici più prestigiosi del mondo, dalla Sala Rachmaninov di Mosca alla Cairo Opera House passando per l’Auditorio Nacional de Musica di Madrid. Questa non è la sua prima volta alla Carnegie Hall. «Ho suonato il piano nel 2015 con Duettango, l’omaggio a Astor Piazzola insieme a Cesare Chiacchiaretta. Tornarci da direttore d’orchestra è diverso. In più suonando Rossini, un compositore che nel mondo non è noto e apprezzato come in Italia: difficilmente si mettono in scena le sue opere, più facile che come in questo caso ci si limiti alle overture, brani divertenti come le sigle dei cartoni animati della Disney, basti pensare al papapapara papapapara del Barbiere».
Da Piazzolla a Rossini passando per un disco di Mussorgsky. L’eclettismo ce l’ha nel sangue. «Non è più tempo di specializzazione estrema, del musicista classico chiuso nel suo mondo distante da tutto e tutti. Io adoro il jazz e ascolto Battisti e Celentano». Il conservatorio dove insegna è uno dei pochi ad avere un corso di diploma in canto pop. Avvicinare i giovani alla classica non è così impossibile. «Il nostro gusto nei secoli è cambiato. La musica barocca oggi è troppo lontana dalla nostra sensibilità. Ai giovani bisogna proporre musica del 900 che ha tanti suoni gravi e uso di percussioni, più vicina all’orecchio moderno». «Italia troppo sazia di sé» A neanche 29 anni ha già girato il mondo, ma più gira più pensa che in Italia si possa e debba fare di più per valorizzare il nostro incredibile potenziale culturale. «Basti pensare che chi vuole fare lirica deve per forza studiare la nostra lingua. A volte noi italiani sembriamo sazi della nostra stessa cultura. Per altri versi paghiamo scelte economiche fatte di tagli alla cultura. Intendiamoci, capisco che ci siano altre priorità, che si può vivere benissimo senza saper suonare il trombone, però i dati parlano chiaro: i paesi più sviluppati economicamente sono anche quelli culturalmente più avanzati. Le due cose non sono slegate, viaggiano in parallelo, rinunciare a una porta danni anche all’altra». È per questo che da direttore si sta battendo perché per i suoi studenti andare all’estero sia una scelta, non un obbligo. «L’Italia non può essere solo La Scala. Non esiste che la rivista di settore io la trovi solo a Roma o a Milano, la devo poter comprare anche a Lamezia Terme. Ai miei studenti del conservatorio l’altro giorno ho detto: “In Italia c’è spazio per tutti. A New York c’è spazio per ognuno”. Il senso è che a New York puoi essere quello che vuoi, hai diritto a qualsiasi tipo di aspirazione. In Italia ti devi adeguare a quello che ti offre l’ambiente circostante, ma che un musicista debba andare via dalla propria terra per fare il concorso in una orchestra è ingiusto, e va cambiato».