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 2018  maggio 29 Martedì calendario

Quel “mitomane” di Carrère a caccia di fantasmi russi

«Mi chiedo se per me scrivere non voglia dire necessariamente uccidere qualcuno». Nessuno scrittore adora e disprezza se stesso con l’intensità, l’ironia, il coraggio e la magnificenza con cui adora e disprezza se stesso Emmanuel Carrère.
Sempre, in tutto quello che scrive, ma in particolare in questo libro, Un romanzo russo, in uscita per Adelphi, con una nuova traduzione di Lorenza Di Lella e Maria Laura Vanorio. Capolavoro di mitomania, geniale esercizio di umiliazione, mise en abyme della vergogna familiare attraverso l’implacabile teatro di un eros insieme ferino e cervellotico. Un uomo, Emmanuel, sogna di fare l’amore con due donne nello scompartimento di un treno.Quando si sveglia, la gola arsa dai postumi di una sbronza, ci spiega la ragione per cui ha deciso di raccontare la storia che sta raccontando. Ha appena pubblicato L’avversario, dove ha raccontato la vicenda di Jean- Claude Romand, l’uomo che ha sterminato la sua famiglia per non dover dire la verità sulla sua vita. «Non voglio più ritrovarmi», scrive «a intessere storie di follia, gelo, prigionia, a progettare la trappola in cui presto a tardi cadrò». Per evitarlo, ha accettato di seguire la vicenda di András Toma, un contadino ungherese che a diciannove anni fu portato via dalla Wehrmacht nel corso della sua ritirata e poi catturato dall’Armata Rossa.Internato in un campo di prigionia, nel 1947 venne trasferito nell’ospedale psichiatrico di Kotel’nic, una cittadina a ottocento chilometri a nord- est diMosca. Lì, dimenticato, rimane per cinquantatré anni fino al suo fortuito ritrovamento. Carrère sta andando lì, con una troupe, per girare un documentario. Che si intitolerà Ritorno a Kotel’nic. Questo documentario esiste, vedetelo, se vi capita: è struggente. Un diario alcolico e allucinato di un Paese a pezzi, con personaggi che ballano, cantano, si muovono feriti e feroci sotto lo sguardo dello scrittore. È lì dentro che si annida il germe di Limonov, il libro che qualche anno più tardi lo ha reso celebre. Il 9 dicembre del 2000, mentre sta montando quel documentario, lo scrittore compie 43 anni. Sua madre, Hélène Carrère D’Encausse, docente universitaria, autrice di bestseller sulla Russia comunista e accademica di Francia, il giorno del compleanno gli comunica che quella è l’età in cui è morto suo padre, il nonno di Emmanuel. Ma è un lapsus, vera ghiottoneria per Carrère in piena terapia psicanalitica: Georges Zourabichvili, suo nonno, ne aveva 46 quando è scomparso, nel 1944. Questo significa, dice, che gli restano ancora tre anni per dare sepoltura al fantasma. Il segreto, il grande rimosso della sua famiglia, l’esule georgiano, arrivato in Francia all’inizio degli anni Venti, tassista, intellettuale, assediato da una vita agra e acrimoniosa. Hélène supplica il figlio di non scriverne, ma compito degli scrittori è sempre quello che scrivere proprio quello che non si deve. Pagandone le conseguenze. Un romanzo russo è un libro sul quale fa perno la carriera letteraria di Carrère. È stracolmo di meraviglie, con una scrittura solo apparentemente centrifuga, ma che, pagina dopo pagina, mentre sembra allontanarsi, rivela. Mentre accumula, libera.E svela l’ossessione, schietta come un diamante: qualunque cosa si scriva, tutto continua a sfuggirti, e tormentarti.