Corriere della Sera, 29 maggio 2018
«La casa de papel», allegoria di una ribellione antisistema
Ora che Netflix ha rilasciato la seconda stagione de «La casa de papel» (La casa di carta), possiamo interrogarci sul successo internazionale della serie, sul profluvio di commenti che ha generato (ormai sono tutti esperti di serialità), persino sul fatto che in certi paesi venga considerata un’opera eversiva.
Se la serialità classica (per esempio «Hill Street Blues») era costruita con perfezione per la scadenza settimanale, «La casa de papel», nata per la tv tradizionale, è finita per essere uno degli esempi più riusciti delle nuove forme di consumo, il binge-watching o «effetto Netflix». I colpi di scena e l’espediente retorico del cliffhanger sono così surriscaldati da costringere lo spettatore a non desistere, ad abbandonarsi al continuum narrativo favorito dalle nuove tecnologie.
«La casa de papel», ideata da Álex Pina, racconta di una grande rapina alla Zecca di stato spagnola, forse un’allegoria di una più ampia ribellione contro il sistema e contro le politiche della Banca Centrale Europea. In realtà è una grandiosa partita a scacchi fra il «professore» che guida gli otto assalitori (l’attore Álvaro Morte) e l’ispettore Raquel Murillo (l’attrice Itziar Ituño): mosse e contromosse, preparazione e improvvisazione. Gli altri sono solo pedine che fingono di avere un’identità. Se da alcune serie «alte», la scrittura de «La casa de papel» ha preso a prestito tecniche raffinate (l’uso del flashback, le citazioni filmiche e letterarie, il gusto dell’action), non ha disdegnato, come Steve Bochco aveva fatto con «Sentieri» o «General Hospital», di attingere alle telenovele spagnole, che sappiamo essere molto vitali specie nei dialoghi e nelle trame multiple.
In un ordito di straordinaria potenza, la serie offre una varietà di temi in modo da coprire un ampio spettro di empatie: le storie singole, i rapporti fra sequestratori e sequestrati, la sindrome di Stoccolma, le psicologie, le ideologie…