Corriere della Sera, 29 maggio 2018
Tassisti che si suicidano per colpa di Uber
Adesso l’incrocio dell’86esima strada con East End Avenue, dove è stato trovato parcheggiato il taxi giallo di Yu Mein Chow, è diventato il luogo di un pellegrinaggio silenzioso e anche di una protesta fatta di cartelloni appesi ai lampioni. Il cadavere del tassista birmano, il quinto a suicidarsi a New York dall’inizio dell’anno, è stato ripescato nell’East River, nove miglia più a sud. Ma Chow deve aver compiuto il suo gesto disperato, gettandosi nel fiume, proprio qui, nel cuore del ricco Upper East Side, a due passi da Gracie Mansion, residenza storica dei sindaci di New York, oggi occupata da Bill de Blasio.
Un sindaco di sinistra, un tempo protettore dichiarato dei tassisti, oltre che di tante altre categorie di lavoratori, che era già finito (assieme al governatore Andrew Cuomo) nel mirino della protesta l’8 febbraio scorso: quel giorno un altro tassista, Douglas Schifter, si suicidò sparandosi un colpo alla testa davanti al municipio dopo aver postato su Facebook un messaggio nel quale accusava il primo cittadino e altri politici locali di aver trasformato gli autisti in schiavi. A marzo, poi, era toccato a un altro tassista: stufo di guidare per più di cento ore a settimana per portare a casa un magro stipendio, aveva deciso di ritirarsi. Solo allora aveva scoperto che il Medallion, la licenza del suo taxi che un tempo aveva avuto un valore commerciale superiore al milione di dollari, il serbatoio che doveva sostenerlo negli anni della pensione, ormai non poteva essere venduto a più di 175 mila dollari (150 mila euro). Disperato, ha deciso di farla finita, come già altri due suoi colleghi a gennaio.
I tassisti sono stati spesso criticati in molte città del mondo, e anche in Italia, per i loro atteggiamenti corporativi, ma casi umani come quelli di Schifter e Chow illustrano in modo drammatico la complessità e profondità dei problemi sociali scatenati dalla digitalizzazione di molti servizi e dalla diffusione della cosiddetta gig economy: quella dei «lavoretti» svolti in regime di condivisione. Un sistema flessibile e poco costoso: molto vantaggioso per il trasportato ma che spesso trasforma gli autisti in «working poor»: poveri pur lavorando a volte fino a 15 ore al giorno.
De Blasio anni fa aveva cercato di limitare la diffusione di Uber e delle società di «ride sharing», le auto condivise. Ma le nuove aziende del settore avevano mobilitato i loro utenti: newyorchesi – spesso con idee di sinistra – che non vogliono rinunciare alla comodità di poter chiamare un’auto con un’app che ti mette in contatto con l’autista e ti mostra il percorso del veicolo in arrivo.
Una volta costretto il sindaco alla retromarcia, si sono aperte le cateratte: dai 13500 taxi (certamente troppo pochi) guidati da circa 40 mila autisti con licenza, si è passati in pochi anni a una situazione nella quale gli autisti con licenza sono diventati 150 mila, al volante di 100 mila veicoli autorizzati al trasporto di passeggeri. La sola Uber, le cui 105 vetture del 2011 erano già diventate 20 mila nel 2015, oggi ha ben 60 mila «driver».
Molte opportunità per gli utenti (anche se poi il traffico è impazzito) ma per chi si guadagna la vita al volante è un disastro. Ancor più per coloro che avevano investito centinaia di migliaia di dollari per acquistare un Medallion: hanno perso quasi tutto. Ma anche per i semplici autisti la vita è cambiata: un tempo lavorando 8-9 ore al giorno potevano garantire alle loro famiglie un reddito da ceto medio, mandare i figli al college. Oggi girano a vuoto (il tempo in cui taxi e limousine circolano senza passeggeri è aumentato dell’81%) e più della metà di loro guadagna meno di 50 mila dollari l’anno: troppo poco per il costo della vita di New York. Ci sono tassisti che diventano «homeless»: dormono nelle loro auto. E si diffondono casi come quello di Beresford Simmons che a 71 anni, e dopo aver guidato taxi per oltre mezzo secolo, non può smettere pur essendo in dialisi e reduce da un’operazione al cuore. Molti stringono i denti, alcuni cedono.