Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  maggio 27 Domenica calendario

Portano in giro i malati di Ebola, pericolo epidemia

La nuova epidemia di Ebola – la più pericolosa delle nove che hanno flagellato la Repubblica Democratica del Congo da quando il letale virus è stato scoperto quattro decenni fa – sta mostrando al mondo un risvolto antropologico che, questi giorni, si sta imponendo al personale sanitario, agli operatori umanitari e ai funzionari di sanità dell’Oms: la potente barriera che usi e costumi, tradizioni culturali e religiose, oppongono alle risposte all’emergenza sanitaria, basate sulle conoscenze scientifiche e sull’evidenza dell’efficacia delle misure di contenimento. Lo raccontano al meglio le «storie» che ci arrivano dal remoto mondo squassato dalla malattia. L’ultima è quella che arriva dalla città portuale fluviale di Mbandaka. Qui i congiunti di alcuni malati di Ebola, confidando più nella preghiera che nelle cure mediche – hanno organizzato una folle evasione da un reparto d’isolamento caricando su sei motociclette gli infetti per condurli ad un’adunanza religiosa. Una scena da film dell’orrore. Diverse decine di persone sono state esposte al virus attraverso il vomito di uno dei morenti. E ora gli operatori sanitari stanno monitorando i contatti e usando un approccio di «vaccinazione ad anello», nel terrore che una persona infetta, viaggiando lungo il fiume Congo, possa disseminare epidemie in luoghi diversi, e arrivare, come una bomba distruttiva, alla capitale Kinshasa, una città di dieci milioni di abitanti. Il «nuovo» – cioè gli importanti progressi nella cura medica del virus, incluso l’uso di un vaccino sperimentale – si scontra col «vecchio»: la paura e sospetto nei confronti di medici e infermieri e dei loro equipaggiamenti; la diffidenza e lo scetticismo locale sui pericoli e la necessità di isolare i pazienti infetti; l’idea che la febbre emorragica, altamente infettiva ed estremamente letale, sconosciuta fino al 1976, sia stata portata per qualche «stregoneria» occidentale; la scelta di alcune famiglie di denunciare in ritardo i casi e di sottrarre i morti al controllo medico e alle modalità di sepoltura, percepiti come una «profanazione» e uno sconvolgimento dei rituali che impongono il «saluto» del defunto attraverso il contatto diretto col corpo e con i fluidi biologici (sangue, saliva, urina o vomito), con conseguente pericolo di trasmissione nelle comunità. Le tradizioni culturali e religiose, sono state, dal colera alla Spagnola del 1918, una preoccupazione costante per le autorità sanitarie e politiche che, per fronteggiare l’emergenza, dovevano varare misure che implicavano quarantene, isolamenti, sepolture collettive, divieti di visitare i malati in case e ospedali, proibizioni di veglie e cerimonie funebri nelle chiese. Al tempo non era certo all’ordine del giorno l’esigenza di coinvolgere le comunità, di evitare di imporre i provvedimenti con la forza e la violenza, di utilizzare una comunicazione adeguata per diffondere fiducia e dissipare la paura. La strada imboccata oggi – su suggerimento di studiosi ed esperti – di schierare antropologi, leader religiosi locali, maestri, figure di riferimento nelle comunità è quella giusta e rientra in quel «nuovo», tra progresso della scienza e rapidità d’intervento, che può aiutare a contenere l’epidemia e a spegnere il pauroso focolaio.