La Stampa, 27 maggio 2018
Populisti e tecnici, decenni di rivalità
Il populismo e i tecnici, o delle relazioni ambigue. Come in tutte le storie di (odio)amore. Perché, a dispetto delle dichiarazioni e dei proclami ideologici, scavando un po’, emerge con chiarezza come i populisti subiscano il fascino discreto di quegli esperti che, nello storytelling, vengono attaccati senza tregua e si ritrovano assimilati alla tanto detestata «casta». E dire, invece, che esiste un rapporto praticamente ininterrotto che dalle origini extraeuropee delle dottrine populiste arriva sino all’alleanza tra Lega e Movimento 5 Stelle e al potenzialmente nascituro primo esecutivo europeo sovranista.
I movimenti politici populisti sono sorti nella Russia e negli Usa della seconda metà dell’Ottocento per rivendicare la bontà dei valori popolari contro l’oppressione e la corruzione delle élites. Reclamavano la rappresentanza esclusiva – all’insegna di una sorta di superiorità morale – di un «popolo» che veniva idealizzato e prendeva forma, di fatto, proprio attraverso la loro «nomination».
Un «popolo» che era dunque il frutto della rappresentazione messa a punto da alcuni intellettuali (ovvero, per molti versi, dei «tecnici» di quell’epoca), i quali, spesso, si ponevano direttamente alla guida di queste organizzazioni politiche populiste: così avvenne per i decabristi, i nichilisti e gli anarchici russi come pure per svariati dirigenti del People’s party americano.
Il concetto (e l’immagine) del popolo quale comunità organica, indistinta e coesa – ovvero, il fondamento di legittimazione stesso del discorso e dell’ideologia del populismo – così come una certa idea di nazione alla base della retorica e della dottrina del nazionalismo sono quindi, sotto molti profili, l’«invenzione di una tradizione» effettuata da una serie di esperti e «tecnici». E lungo tutto il Secolo breve, fino alla nostra età postmoderna, gli esempi si sprecano.
Il programma peronista dello «Stato sindacalista» venne stilato da drappelli di giuristi, i quali, insieme agli economisti, hanno riempito i gabinetti ministeriali quando i vari leader populisti sono arrivati al governo da un capo all’altro del globo. Viktor Orban orchestra campagne contro la «tecnocrazia di Bruxelles» (dei cui fondi strutturali il suo Paese ha ampiamente beneficiato in questi anni) e perseguita accademici e giornalisti, ma lui stesso ha studiato a Londra (per giunta, grazie a una borsa di studio dell’ateneo dell’odiato George Soros), e ha imbottito i suoi governi di intellettuali che fanno riferimento al cristianesimo più oltranzista e tradizionalista; il suo portavoce e «Richelieu personale», Zoltan Kovacs, incaricato anche in virtù dell’inglese dall’impeccabile «Oxbridge accent» di tenere le relazioni con i media internazionali per cercare di edulcorare le sembianze della destra xenofoba (e statalista) al potere in Ungheria, ha il dottorato ed è un professore universitario di storia.
E gli ufficiali che hanno affiancato al governo il caudillo tele-populista Hugo Chávez non erano forse tecnici (della professione militare)?
Giunti all’auto-proclamazione della Terza Repubblica da parte di Luigi Di Maio, l’uomo scelto per fare il premier è – a dispetto delle accuse agli esecutivi precedenti – proprio un tecnico (del diritto), e un «intellettuale d’area», il prof. Giuseppe Conte. A proposito di corsi e ricorsi storici, non guasta ricordare che l’autentica Terza Repubblica (quella francese tra il 1870 e il 1940) è stata dominata proprio dai giuristi accademici e dagli avvocati. E tanti sono oggi gli economisti noti (compresi ex banchieri) che guardano con simpatia ai partiti-movimenti populisti, dal tedesco Thilo Sarrazin all’italiano Paolo Savona.
Dunque, il rigetto e l’esecrazione dei tecnici da parte delle leadership populiste – che sono, a loro volta, delle (nuove) élites – si configura, in realtà, da molti punti di vista come una strategia comunicativa e propagandistica che rientra in pieno nel doppio binario tipico della loro narrativa, il cui secondo livello consiste spesso, a dispetto delle apparenze, nella (problematica) ricerca di qualche modalità di accreditamento presso i vituperatissimi establishment. E la polemica contro i tecnici e gli esperti serve così soprattutto a intercettare elettoralmente un certo spirito del tempo, sciaguratamente avverso ai portatori di competenze (e ben raccontato da Tom Nichols ne «La conoscenza e i suoi nemici», Lup).