La Lettura, 27 maggio 2018
Bilancio della stagione teatrale
Non proprio un commento a me stesso né un bilancio di fine stagione. Le stagioni teatrali non si sa più quando finiscono e quando cominciano. Per commento a me stesso intendo a quell’articolo d’inizio stagione, il cui titolo ha un poco fatto la fortuna del Macbettu prodotto dal Sardegna Teatro. Il titolo recitava: «Poi ci sarà Macbettu in sardo. Non vedo l’ora di non vederlo» («la Lettura», 3 settembre 2017, #301). La produzione ha risposto con uno spiritoso cartello e parte della critica (ma lo spettacolo non lo aveva visto quasi nessuno) con l’assegnazione di un premio d’un qualche prestigio. Per la verità anche il pubblico che lo ha visto nei mesi successivi ha accolto il Macbettu in modo entusiastico. Ve ne erano ragioni obiettive nella raffinata regia di un giovane di talento, Alessandro Serra. In un certo senso non ve ne era nessuna pensando al succo dello spettacolo: a mio parere profondamente reazionario.
Ho scritto questa parola, in sede di recensione, una parola che non si usa più, probabilmente anti storica e tuttavia ancora per me pregnante: reazionario, scrissi, a causa della sua rivendicazione di un’identità. Il successo dello spettacolo ritengo sia intimamente dovuto anche a dominanti inclinazioni della società civile, come continuano a rivelare le pulsioni antieuropee. In ogni caso, voglio precisare: la mia frase era ovviamente di maniera e si riferiva all’uso del dialetto. Ma se il dialetto, quale che sia, può dare fastidio a me, è proprio il fine dichiarato, la scelta di dare voce alla sardità, a non dover essere considerato un fatto meramente soggettivo.
L’altra nota dominante si annunciava, non solo al Piccolo di Milano o all’Argentina di Roma, ma in tutta Italia, con l’invasione di una sola drammaturgia, quella di Stefano Massini. Perché il suo Freudo l’interpretazione dei sogni, messo in scena al Piccolo da Federico Tiezzi, non l’ho voluto vedere? Per risparmiarmi una delusione. Anche questo l’ho scritto: Tiezzi e i suoi attori saranno stati bravi quanto si vuole, ma Massini scrive troppo e di troppo disparati argomenti perché si abbia voglia di seguirlo. Dopo Lehman Trilogy non posso sapere (non posso escludere) che Freud fosse testo di un qualche livello sulla nascita della psicoanalisi, ma come crederlo pensando all’Umberto Eco (Il nome della rosa), al van Gogh (L’odore assordante del bianco) e al Boccaccio (L’ultimo Decamerone) venuto dopo? Ho visto L’ultimo Decamerone, per la regia di Gabriele Russo, e i miei timori si sono rivelati fondati.
A proposito di spettacoli non visti voglio citarne sei, con le brutali o casuali ragioni che mi hanno indotto ad astenermi. L’ultimo, ovvero il più recente, è il Don Giovanni di Valerio Binasco: non mi piaceva la grossolana idea dell’ambientazione in un quartiere povero di Napoli e che il protagonista non fosse proprio un Adone. Non ho voluto vedere l’ultimo spettacolo di Massimiliano Civica, promosso a consulente artistico del Metastasio di Prato, per la sua ostinazione a mettere in scena gli inutili o pallidi testi di Armando Pirozzi. Altri, anche in questo caso, lo premieranno, ma ciò non è che la conferma della povertà del nostro teatro ufficiale (benché a esso siano arrivati i da poco ex giovani). Non ho visto Santa estasi di Antonio Latella per un motivo analogo, non avevo voglia di scoprire/ascoltare i giovani drammaturghi all’opera nel reinventare i personaggi del mondo classico e soprattutto (sicuramente a torto, riflettendo alla umana autorevolezza del regista) non avevo voglia di uno spettacolo di otto ore. Non ho visto il Riccardo II di Peter Stein per la semplice ragione che trovavo detestabile l’idea di far interpretare la parte di un giovinetto da un’attrice non più giovane. Per un puro caso, per incidenti di percorso, e perché lo spettacolo era della stagione precedente, non ho visto Otello di Elio De Capitani e di Lisa Ferlazzo Natoli.
Forse a ragion veduta (pensando alla recente legge) le maggiori delusioni sono venute da tre teatri Nazionali. Avevo scritto che mi aspettavo molto da The Year of Cancer, in scena al Piccolo per la regia di Luk Perceval. Ciò che mi attraeva era per la verità più il testo che lo spettacolo in sé: ma nonostante la dignità dell’insieme, sia l’uno che l’altro sono alla fine risultati deludenti. Spiacevole, prima di tutto per motivi di scialo (soldi a profusione per la scena), Il padre di Strindberg di Gabriele Lavia, prodotto dal La Pergola di Firenze. Ma allo stesso Lavia, in quanto attore, non si può non muovere l’appunto dell’eccesso: anche la sua in fondo è una rivendicazione di identità.
Lo spettacolo peggiore però lo ha prodotto il teatro di Roma. Mi riferisco all’Antigone di Tiezzi. Tiezzi avrà fatto un capolavoro del Freud, non so, ma ha anche realizzato lo spettacolo più ambizioso e peggiore dell’anno – per la mancanza di gusto e distanza dal cuore della tragedia che si possa immaginare.
Probabilmente, senza scherzare, Bestie di scena pensavo di non vederlo. Avevo scritto che i pareri di chi lo aveva già visto erano per lo più negativi. A causa di ciò, del fatto di ascoltare le altrui opinioni, Emma Dante, l’autrice, che non conosco, con cui non ho mai scambiato parola, prima di andare in scena mi ha gentilmente sconsigliato di vedere il suo spettacolo. Ma lo aveva fatto perché aveva saputo che non avrei dato retta a me stesso. Non vedevo uno spettacolo della regista siciliana da almeno due anni e Bestie di scena mi è parso nella sua media espressiva. Mi è piaciuto. Non mi ha esaltato. Vita mia era un’altra cosa e si capisce che se si fanno tanti spettacoli non tutti possono avere la stessa intensità espressiva. Sul medesimo piano di conferma del proprio valore o della propria esperienza lo spettacolo di Giorgio Barberio Corsetti, un Re Lear che molti hanno rifiutato per i suoi colori e la sua disinvoltura – quella che a me è piaciuta. E poi il Theatrum Mundi show di Pippo Di Marca, il più anziano esponente dell’avanguardia romana degli anni Settanta (sia per Barberio che Di Marca sono produzioni, almeno in parte, del teatro di Roma che nel complesso risulta più attivo e più vivo del Piccolo – cosa che noto poiché l’articolo cui mi riferisco e che commento era incentrato su questi due teatri); il Disgraced di Ayad Akhtar, un testo mediocre al quale Jacopo Gassmann ha cercato e offerto dignità espressiva, una raffinatezza di gran lunga superiore al punto di partenza; e naturalmente Copenhagen di Michael Frayn: la stessa messa in scena di Mauro Avogadro di tanti anni fa, che in nulla ha perso il suo smalto; lo si potrebbe continuare a proporre sempre, lasciandoci nel dubbio e nelle domande che il suo autore si pone.
Vi sono poi gli spettacoli di teatro tradizionale, ossia messe in scena di un testo senza allontanarsene più che tanto, che ricordo con maggior piacere e sorpresa. Più d’ogni altro Settimo Cielo di Caryl Churchill, per una quantità di ragioni. Perché Churchill è una grande scrittrice, perché è una scrittrice da noi poco o niente conosciuta, perché è una scrittrice difficile e perché non conoscevamo neppure la sua regista Giorgina Pi, una regista accurata nella distribuzione degli attori e nel prepararne l’apparizione e i movimenti. C’è infine una ragione extra-artistica: perché lo spettacolo è nato all’Angelo Mai, un centro sociale. Se un centro sociale propone roba di questo livello non capisco come si possa ai centri sociali fare la guerra.
Prodotto dalla compagnia Gank di Genova un’altra sorpresa assoluta, Poker di Patrick Marber, per la regia di Antonio Zavatteri, un artigiano che dimostra come l’artigianato privo di pretenziosità possa pervenire ad altezze inaccessibili a tanti che sono artigiani ma che si vogliono artisti. E prodotto da un altro privato, il Quirino di Roma, Il piacere dell’onestà diretto da Liliana Cavani: di questo spettacolo mi sono piaciute la misura e il rispetto nei confronti dell’autore, Pirandello, e naturalmente la prestazione di tutti gli attori.
Voglio poi citare quattro maiuscole prove, in cui regia e interpretazione erano tutt’uno. Fabrizio Arcuri ha diretto la sua interprete Anna Paola Vellaccio con maestria, con gusto «magico» per la scena, per graduale e rapinoso sprofondamento nell’ambiguità in una fiaba nera di Ágota Kristóf, La chiave dell’ascensore. Enrico Frattaroli ha da par suo orchestrato (è la parola giusta) ai limiti in cui la scienza della scena si rovescia in poesia, un’attrice che non conoscevo, Maria Teresa Pascale. L’ha diretta in un classico dei nostri anni, 4:48 Psychosis di Sarah Kane. Quante volte lo abbiamo visto? In quante posture (della voce) abbiamo sentito le ultime parole della scrittrice inglese? Mai avevamo percepito tali livelli di ammissione-confessione del dolore. Tutta diversa la prova performativa di Elena Arvigo in Una ragazza lasciata a metà: era come se ogni volta improvvisasse e tuttavia sempre restituisse lo stesso senso di incompiutezza, di fallimento dell’autrice, Eimear McBride. Infine, lo spettacolo forse più inventivo, più realmente performativo, più radicato in una tradizione e tuttavia più nuovo: Roberto Latini assai migliore interprete di sé stesso (nel Cantico dei cantici) che direttore di altri attori (mi riferisco a Quartett di Heiner Müller, una produzione del Metastasio di Prato).
Vengo infine agli spettacoli se non più belli, più complessi, più elaborati, più stupefacenti. Due sono francesi, li si è visti in Romaeuropa festival. Sono Espæce di Aurélien Bory, ricavato con l’intelligenza, con le pinze, con la fantasia, con la disperazione, dal testo impossibile, Espèce d’espace, di Georges Perec. E, di Julien Gosselin, Le particelle elementari di Michel Houellebecq. Quando avevo letto il libro anni fa non mi era piaciuto. Perché, di nuovo leggendolo dopo lo spettacolo, mi è parso un passaggio tutt’altro che secondario nella parabola produttiva del suo autore? Credo che la ragione ne sia, come si capisce, il lavoro di Gosselin: come egli ha costruito la scena, su una molteplicità di piani, e con una varietà di linguaggi e di mezzi di trasmissione, dalla figura alla parola all’immagine cinematografica. «Il mio spettacolo è plastico, è un concerto, è un’installazione, è letteratura». Scrivevo: una mise en espace portata alle estreme conseguenze.
In quanto ai due italiani, uno è non sorprendente, parlo di Romeo Castellucci – che mi sembra stia attraversando una nuova stagione riccamente creativa dopo qualche anno di stasi. Democracy in America è straordinario per abbondanza, per varierà, per profondità di analisi attraverso le immagini; in una parola per la sua forza critica. Critica, intendo, nei confronti di un’idea della democrazia efferata, violenta, quella (la tirannia della maggioranza) che si nasconde nelle pieghe stesse della costituzione e che ha le sue radici nel puritanesimo e nella dottrina spesso sbrigativamente ricavata dal Vecchio Testamento.
Ma la sorpresa assoluta, e non perché non si sapesse di Mimmo Borrelli, è il suo La Cupa. Né Milano né Roma hanno prodotto lo spettacolo più importante e memorabile della stagione, lo ha prodotto lo stabile di Napoli. Non sono in grado di descriverlo in due parole, non posso neppure accennare alla atroce violenza di cui ci parla lo scrittore, il regista e interprete Borrelli. La Cupa non si riferisce alla cupezza della nostra società, è un’altra cosa. E tuttavia è lo spettacolo che della nostra attuale società italiana meglio condensa in un’immagine proprio la cupezza, la mancanza assoluta di prospettiva, l’illimitata capacità di offesa. Che in essa si parli in una lingua a tutti estranea non ha importanza alcuna. È quanto accadeva (sempre a Napoli, quest’anno la vera capitale del teatro) nell’altro memorabile spettacolo quello di Castellucci, asciutto, severo, di una sobrietà assoluta: Il velo nero del pastore, tratto dalla novella di Hawthorne e recitato da Willem Dafoe in inglese – lingua non estranea ma senza sottotitoli, quindi e comunque «straniera». Ma in Castellucci e Borrelli ciò che conta è l’immagine – figure di saldatura, di sintesi, di energia, di volontà di lotta. Il contrario esatto di qualsivoglia rivendicazione più o meno identitaria.