la Repubblica, 27 maggio 2018
Intervista a Corrado Stajano
L’esercizio della memoria percorre strade talvolta insolite. È fatto di piccoli dettagli, richiami esterni a volte disposti in buon ordine. Ad esempio, è interessante guardare le scrivanie delle persone. Gli oggetti e le carte che vi si dispongono sono un po’ come la vecchia mappa del marinaio che orienta la prua della nave. A seconda dell’ordine (o al contrario della confusione), indica una certa disposizione mentale di chi vi lavora. La scrivania di Corrado Stajano sembra rispondere a precisi criteri di catalogazione. Risalta la lunga fila di matite che in un angolo, quasi ai bordi della superficie del tavolo, delinea una geometria compatta. Sono tutte di colore azzurro, di eguale lunghezza, fornite di una punta che al tatto, con una leggera pressione, farebbe pensare a uno spillo, a un’arma del pensiero, o piuttosto a uno strumento la cui anima di graffite consente di ripensare cancellando ciò che si è scritto. Un oggetto comune, ma insolito nelle mani di uno scrittore. E quando gli chiedo della disposizione, e dell’uso che ne fa (o che potrebbe farne) mi guarda come se la risposta dovesse essere già compresa nella domanda: «È semplice, quando posso scrivo a matita, non so perché, forse come tu dici è per cancellare dove c’è un errore o un ripensamento. O forse per una inclinazione bambinesca. Non è un caso che collezioni anche calamai e quaderni. Quaderni di tutti i colori. Tiziano Terzani, tornando dall’India, mi portava in regalo quei quaderni che solo lì sanno fare. Ora però, a proposito di manie, ti vorrei far vedere una cosa che ho di là». È una grande tovaglia di lino, appesa a una parete del salotto. A prima vista sembrerebbe un’opera concettuale degli anni Sessanta, in realtà è un minuziosissimo lavoro che Maria Borgese (nonna di Giovanna che è la moglie di Corrado ed eccellente fotografa) aveva ricamato con tutte le firme degli ospiti famosi che tra il 1914 e il 1947 hanno visitato Palazzo Crivelli. Quell’anno del dopoguerra Maria muore. Ma fa in tempo a completare questa bizzarra tela su cui è scritta la testimonianza di un secolo. Perché ti è sembrato interessante farmela vedere? «Perché a proposito di mappe e di memoria, quel reperto di stoffa di un metro e settantacinque centimetri quadrati dà l’idea di un mondo totalmente scomparso. Una società letteraria straordinariamente fertile che si dava appuntamento nella casa di Giuseppe Antonio Borgese, provenendo da tutta Europa. Firmarono quella tovaglia personaggi come Stravinskij, Tagore, Anna Kuliscioff, Croce, Antonio Banfi, Stefan Zweig, Palazzeschi e Buzzati. Perfino Ettore Petrolini. E ripenso alla sorte tragica di alcuni di loro che per un attimo o a più riprese varcarono Palazzo Crivelli: Giovanni Gentile ed Eugenio Colorni. Quest’ultimo ucciso dagli sgherri fascisti della banda Koch e l’altro dai partigiani comunisti». Storie diverse ma accomunate da un medesimo destino. «Direi destini diversi raccontati come se fossero parte di una tessitura più grande. È quello che mi ha sempre affascinato degli incontri che ho avuto nella mia lunga vita di cronista e scrittore. Ovverosia, che le storie anche quelle più misteriose, complicate, assurde si sciolgono e si ricompongono in un disegno che chiamerei le verità dell’uomo».
«Con curiosità, come fosse un gioco. Mi è sempre piaciuto osservare la fisionomia delle persone, senza alcuna velleità lombrosiana. Guardare i tratti di un volto, i gesti delle mani, la camminata, e la voce di una persona. È il primo passo verso una storia o, meglio, un destino che magari non conoscerò mai, ma che mi aiuta a dispormi con attenzione verso l’altro». Ti sei definito un ladro di anime. «Fin da bambino pensavo che “rubare” potesse essere non necessariamente un atto disdicevole. Almeno nel senso del prendere qualcosa che l’altro forse neppure sospetta di avere». Dove sei nato? «A Cremona, ma ho trascorso l’infanzia a Como. Mio padre era di Noto. Finita la guerra fu mandato col grado di capitano a Cremona dove conobbe mia madre. In quella città spadroneggiava Farinacci. E fu nel 1922, alla vigilia della marcia su Roma, che i fascisti assaltarono l’edificio della prefettura. Fedele alla monarchia e allo Stato, mio padre ebbe il compito di proteggere la sede prefettizia. Ci furono dei morti dalla parte degli squadristi. Il ras Farinacci invocò il martirio fascista. Fu in quel momento, nella confusione e collusione dei poteri governativi, che il fascismo trionfò. Era il 1922, la marcia su Roma fu la ciliegina». E tuo padre? «Ne patì tutte le conseguenze. La sua ubbidienza agli ordini ricevuti divenne colpa grave per il nuovo regime. Fu vessato, umiliato ed emarginato. Eppure, continuò ad essere fedele a quei principi che aveva sottoscritto con un giuramento. Ma di quella notte, della dinamica dei fatti accaduti, non volle mai parlare. Solo anni dopo, nell’imminenza della seconda guerra mondiale, venne coinvolto con compiti militari importanti. Fu mandato in Russia. Pagò il disastro con un principio di congelamento degli arti inferiori. Lo andammo a trovare con la mamma all’ospedale di Imola. Fu allora che vidi i primi morti della mia vita». Lo dici come se quelle immagini ti avessero segnato in maniera indelebile. «È così, ma non perché la morte sia la rappresentazione finale di una vita, ma per quella fragilità esistenziale che è in grado di riflettere. È un modo per metterti al posto di chi non c’è più». Hai spesso lavorato su personaggi la cui morte è diventata emblema di una storia civile. «È stata una parte consistente della mia professione di cronista e soprattutto di scrittore. Ho sempre amato personaggi solitari, che attraverso il loro ideale avvistavano una società diversa: più giusta e corretta. Niente di travolgente». Sono nati così i tuoi libri “Il sovversivo” e “Un eroe borghese”? «Beh, hanno avuto questa impronta. Anche se poi sono storie molto diverse. Una chiaramente ottocentesca, quella dell’anarchico Serantini, orfano e tribolato che morirà assassinato sul Lungarno di Pisa; l’altra, molto più dentro il nostro Dna, riguarda l’avvocato Giorgio Ambrosoli, ucciso sul mandato di Michele Sindona. Sono morti violente, diverse per conio, ma tutte provenienti da quel fondo oscuro e melmoso che è l’Italia dei misteri». Come hai lavorato a queste vicende? «C’è molta cronaca e ricostruzione attenta mediante indagine. Ma la cosa che più emoziona è fissare ogni volta un posto ideale da cui far dipanare la storia. Per Serantini avevo registrato a memoria il luogo in cui venne ucciso, contando perfino il numero delle pietre; quanto ad Ambrosoli, mi stupì enormemente il confronto tra il suo studio e quello di Michele Sindona. Come se i due spazi riflettessero le due diverse dimensioni umane: in uno si respirasse aria pulita e nell’altro le peggiori tossine». Usi spesso uno stile distaccato, impersonale. Succinto. «Spero non troppo sbrigativo. Cesare Garboli, a proposito di Un eroe borghese, parlò di montaggio cinematografico e di combinazione scientifica. Il che oltre a farmi piacere mi ha fatto capire quanto il mio lavoro fosse libero dal peso ideologico». Vuoi dire che la politica è l’ultimo dei tuoi problemi? «Vorrei che il partito preso non entrasse mai nei miei libri. Mi riconosco in quel che faccio solo smaterializzandomi». Cosa intendi? «Provare in qualche modo ad essere invisibile, che è diverso dall’essere inconsistente». Sei un testimone silenzioso? «Devi far parlare le cose con il loro ritmo e la loro storia. Non è detto che tu capisca tutto e subito. Però sei lì, in attesa che qualcosa accada. Mi resta ancora impressa una data: il 1939. Dunque avevo nove anni». Che cosa accadde? «Il maestro ci annunciò che il giorno dopo avremmo dovuto presentarci con la divisa di giovani balilla. Ci radunarono nel cortile della scuola. Ci consegnarono due piccole bandierine. Una era il tricolore, l’altra aveva una svastica. Non sapevamo niente del loro significato. Il maestro in orbace ci disse che saremmo usciti in fila per due e che avremmo dovuto a un suo segno agitarle. Si trattava delle celebrazioni del “patto d’acciaio”, un’alleanza che avrebbe condotto il Paese alla guerra. Stemmo fermi per tre ore. Cominciò a piovere. Noi lì, intirizziti su quella piazza di Como. All’improvviso spuntò la macchina su cui viaggiavano Ciano e von Ribbentrop. Non sapevo, da testimone silenzioso, che quell’attimo avrebbe condensato tutta la storia successiva». Cosa vuoi concludere? «Forse non c’è una conclusione. C’è il tempo che passa e trasforma, è con questo che la memoria fa i conti. Sono tornato in quel luogo. E mi colpiva vedere che dove c’era un fornaio oggi esiste tutt’altro. Tu dirai: e allora? Ma pensa a un bambino, ai suoi occhi, alla sua larvata consapevolezza e comprenderai quanto perfino un dettaglio trascurabile avesse per lui ormai adulto, un’importanza fondamentale». È di questo che si è nutrita la tua scrittura? «Qualcuno mi ha definito “scrittore civile”, onestamente mi pare una definizione pigra. Se civile significa avere ben presente la differenza tra bene e male allora, partendo dal grande Dostoevskij, sono tanti gli scrittori che possono fregiarsi di questo aggettivo. Quanto al mio stile, distinguerei tra i primi libri – dal Sovversivo ad Africo, all’Eroe borghese, in cui la scrittura è un insieme di racconto, saggio, inchiesta, da quelli che sono venuti dopo, a cominciare da Patrie smarrite». Cosa cambia? «Prevale l’aspetto narrativo: sono come il vasaio – di cui parla Walter Benjamin in Angelus novus – con la sua tazza, non so inventare nulla. Non potrei descrivere un tavolo se non l’avessi davanti. D’altra parte, scrivere un romanzo significa esasperare l’incommensurabile nella rappresentazione della vita umana. In questo ho avuto amici e maestri che mi hanno guidato». Chi? «Dovrei farti un lungo elenco: da Vittorini che conobbi negli anni Sessanta e col quale collaborai per breve tempo alla collana “I Gettoni” a Volponi, Garboli, Nuto Revelli, Vincenzo Consolo, fino a Ermanno Rea e Claudio Magris». Cosa li teneva insieme? «Un certo stupore per la vita unito al disincanto». Preferisci la meraviglia o il distacco? «Invidio le persone che hanno il dono di lasciarsi sorprendere. Quando ero in Sicilia andavo a Capo d’Orlando a trovare Lucio Piccolo. Vedevo quest’uomo farsi avanti con la tenerezza degli stralunati. I suoi capelli a caschetto mi facevano pensare ai Beatles. Mi commuoveva la sua fede nella poesia. Ricordo la villa dove viveva e la stanza con i ritratti antichi degli antenati e lì, in quell’atmosfera di semicecità, declamava le sue poesie. C’era qualcosa di magico nell’uomo e in quello che aveva realizzato. Perfino il cimitero dei cani creato accanto al giardino, mi apparve più che una stravaganza l’esito di un grande amore per la vita. Mi fa tristezza sapere che quella villa, quel mondo di ieri, sia completamente in rovina». Molte cose oggi sono decadute o in rovina. «Sono macerie diverse le nostre, dettate dall’incuria morale, dall’egoismo senza pari e da un’assenza di prospettiva. Ho avuto la fortuna di incontrare maestri che avevano fatto della loro nevrosi una maniera di leggere il mondo circostante. Penso a Gadda che andai a trovare nella sua casa romana, a Tobino di cui ricordo la grande intelligenza e le grandi sbronze, a Dionisotti quando mi riceveva a Londra, con la sua amabile erudizione, oppure a Giulio Einaudi con cui ebbi lunghi rapporti, anche di collaborazione. E allora si fa avanti l’idea che quel mondo con quei protagonisti non ci sarà più. Mi consola sapere che sono le stagioni della vita». Tu quale fase stai vivendo? «In questo momento non ho l’assillo di un progetto. Credendo nei dettagli, aspetto che qualcuno di essi si faccia avanti. Vorrei occuparmi degli anni Cinquanta, un decennio di cui ricordo alcune cose. Ma è come se il mio Io, del ragazzo di allora, fosse inadeguato a comprendere tutto il cambiamento allora in atto». La parola cambiamento sta tornando di moda. «Ci sono parole che pesano più di altre, che vogliono essere taumaturgiche, ma in realtà sono soltanto vuote. “Cambiamento” è una di esse. Oggi piace al pubblico, che è diventato popolo sovrano grazie a un clic. Sono troppo vecchio e smaliziato per non vedere nell’ideologia del cambiamento quello che il principe di Salina vedeva nel proprio tempo. Vecchiaia e scetticismo sono un buon antidoto alle facili illusioni».