la Repubblica, 27 maggio 2018
Il re cinese dei maiali
PECHINO Tutti in Cina lo conoscono come “il macellaio numero uno”. In decenni di onorata carriera, prima come direttore di un’industria suina di Stato e poi come proprietario della sua versione privata, nessuno ha fatto scannare e impacchettare più maiali di lui. Ma chi avrebbe mai detto che salsicce, pancetta, orecchie e code lo avrebbero anche reso tra i manager più pagati al mondo? Più di Tim Cook con i gioielli di casa Apple. Più di Elon Musk e le sue visioni di auto elettriche che si guidano da sole. Più di Lloyd Blankfein e della turbofinanza di Goldman Sachs. Nel 2017 Wan Long, 78 anni, presidente, amministratore delegato e principale azionista del colosso cinese WH Group, primo produttore al mondo di derivati del maiale, ha intascato uno stipendiuccio da 291 milioni di dollari, sopra il totale degli altri 26 capi azienda più pagati del listino di Hong Kong. Tanto grasso che cola. E va bene che in quella busta paga ci sono parecchi bonus accumulati negli anni, ora maturati. Eppure la cifra, nel momento in cui tutti celebrano le fortune della nuova economia, è un inno alla salute della cara vecchia industria alimentare, cinese in particolare. Ogni cittadino del Dragone mangia in un anno circa 40 chili di carne di maiale, un filo meno di noi europei (e molto meno dei serbi, record del mondo con 52 chili). Rispetto al tetto del 2014, i consumi sono un po’ diminuiti, man mano che si diffondono più salutari e meno proteici stili di vita. C’è chi parla addirittura di crisi, eppure con il suo miliardo e 400 milioni di abitanti la Cina è di gran lunga il primo mercato suino al mondo. In un Paese dove ancora dominano piccoli porcili domestici, Wan ha saputo trasformare la sua azienda in uno dei primi allevatori e trasformatori industriali. Fino ad arrivare nel 2013, altri e meno trumpiani tempi, ad acquisire per 5 miliardi di dollari la concorrente americana Smithfield, un colpaccio che ancora gli frutta parte dei bonus della sua super busta paga. Già, anche la filiera del suino è un bell’esempio del doppio nodo commerciale che lega Cina e Stati Uniti, in questo caso tutto a vantaggio dell’America. Dal 2008 infatti, con la spettacolare crescita dei consumi, il Dragone non riesce a produrre in casa tanto maiale quanto ne ingerisce, importandolo dall’estero in ogni forma: surgelato, semilavorato o insaccato. Una fame che sono le fabbriche americane di Smithfield a saziare, dando lavoro a operai statunitensi e arricchendo Wan, ma anche i colossi tutti a stelle strisce Tyson Foods e Hormel Foods. Due giganti che la Borsa di New York oggi valuta 25 e 19 miliardi di dollari, molto più dei 15 di WH Group. Nel complesso, l’export di maiale americano verso la Cina vale 1,1 miliardi di dollari l’anno, a cui vanno aggiunti i 12 miliardi della soia, principale alimento dei porcelli cinesi. Non a caso due dei prodotti che Pechino ha preso di mira in risposta ai dazi di Donald Trump. Ecco servito in brodo di maiale un altro dei paradossi della guerra tariffaria. Colpendo l’hi-tech cinese Trump rischia di penalizzare la “sua” Apple, che in Cina assembla gli smartphone e poi li spedisce negli Stati Uniti. Mettendo una gabella del 25% sul suino americano, Xi Jinping fa del male alla “sua” Smithfield. E tassando la soia dell’Arkansans, cuore dell’elettorato trumpiano, rischia di far schizzare al rialzo i prezzi della proteina d’elezione nazionale. Ora però i litiganti trattano, e per riequilibrare la bilancia commerciale tutta piegata dalla parte di Pechino una delle ipotesi è proprio che la Cina compri in America più prodotti agricoli e alimentari. Tra i principali indiziati: la soia e la carne che oggi acquista altrove, specie in Brasile. Così in una guerra (giustamente) descritta come una sfida per il dominio tecnologico del mondo, nel breve periodo rischia di contare molto di più la vecchia ma floridissima industria del suino. In attesa delle reti 5G, delle auto robot e dell’intelligenza artificiale, c’è sempre tanto bisogno di maiale. E il macellaio Wan Long, per un anno, può pure guadagnare più di Tim Cook ed Elon Musk.