Corriere della Sera, 27 maggio 2018
Intervista a Sergio Zavoli
S ergio Zavoli ha scritto la storia del giornalismo televisivo di qualità in Italia. Il segreto? Sente e pensa come un poeta. Forse perché è cresciuto nel realismo magico di Rimini, come il suo amico Fellini?
«Mi risveglia una tenera lontananza. Sono un riminese onorario nato a Ravenna. Dopo una sosta a San Marino, mio padre divenne cassiere al Monte di Pietà: si metteva tra le dita l’esile carta-moneta lasciandola scorrere sotto gli occhi fiduciosi delle persone che vivevano del poco. Il nostro costume di vita si fuse ben presto nell’incomparabile fenomeno di una città che restringeva l’annata a 4 mesi, un tempo chiamato “stagione”. C’era un treno che arrivava ogni sabato da Amburgo, con la scritta su tutte le carrozze: RIMINI-AMMORE, uno slogan infallibile, più di una promessa...».
E l’infanzia nella Romagna del Duce?
«Gli insegnanti venivano a scuola in divisa. Quando uno di loro esordiva: “A chi il Duce?”, rispondevamo: “A noi!”. Fuori cantavamo inni fascisticamente luminosi (“Dio ti manda all’Italia come manda la luce, Duce, Duce, Duce!”), con le lusinghe dei balconi gremiti di fanciulle. Il comandante diceva: “Voglio che nel mio plotone sia traslata la disciplina prussiana alla quint’essenza!”. Poi si voltava per vedere se qualcuno rideva. “Chi sghignazza là in mezzo?”. “Io”, rispose Ovo, che prendeva il soprannome dalla sua grassezza. “Bravo, mi piace la tua lealtà. Come ti chiami, giovane camerata?” “Mi chiamano Ovo”. “E ti sta bene! Mangia, mangia, che ti aggiusta il Duce”».
Era un bambino «felliniano»?
«Un giorno mi svegliai inquieto: avevo sognato a colori. Fui portato a Forlì da uno specialista. “È solo un po’ d’immaginazione!”. In treno, volli sapere cosa significasse. Mio padre prese tempo per cercare un’idea: “L’immaginazione è vedere quello che altri non vedono...”. Poi aggiunse: “Ma se non hai fatto nulla di male, può anche essere una buona cosa. Però bisogna stare in guardia, la vita non è tutto bianco o tutto nero”. Quando ci misero i pantaloni alla zuava, una notte di Capodanno decidemmo di vedere il misterioso treno delle “Indie”. Passava ogni 15 giorni, all’una e un quarto di notte, fermandosi per colmare i vagoni di carbone e acqua. Nascosti dietro a un mucchio di traversine, vedemmo uscire dal curvone un grande bruco che si fermò davanti a noi. Allora assistemmo al lento alzarsi di una tendina gialla che illuminava il brindisi di due persone immerse in un’estatica felicità. E noi, silenziosi, ciascuno vagando chissà in quali pensieri, tornammo a casa senza neppure salutarci. Rientrai da una finestra del primo piano lasciata aperta, pensai, da mia madre».
Poi venne la guerra...
«Dopo l’8 settembre, indugiavamo spesso nella Trattoria del Lurido, o di Mazzasette, un ribelle che non finirà mai nelle retate tedesche e ogni tanto si diceva ne lasciasse uno per terra. La guerra guerreggiata arrivò il giorno dei Santi del ’43. Ricevuto il secondo ordine di presentarmi al Distretto di Forlì mi rifugiai a San Marino, ma fui preso e aggregato a quello di Pesaro. Dopo un bombardamento, con altri ragazzi fuggimmo. Riparammo in luoghi diversi: io a Perugia, nascosto da mia sorella. Giunti gli Alleati, in 7 volontari, con una divisa senza segni sul giaccone verdastro, fummo assegnati alle retrovie. Più tardi passammo alle cucine, a rimestare una polvere di piselli, il brodino verde dell’8a Armata. Un mattino vedemmo, finalmente, l’“azzurra visione” di San Marino. L’indomani scendemmo a Rimini sventolando un tricolore e canticchiando It’s a long way to Tipparery. Era il 21 settembre del 1944, giorno del mio compleanno. Seppi che mio padre, di notte, con un gruppo di sammarinesi, distribuiva il pane ai rifugiati, che si facevano trovare seduti lungo la fila dei materassi, in attesa, così sembrava, dell’eucarestia».
Che effetto le fece il «ritorno alla civiltà»?
«“Adesso – scriverà il riminese Gino Pagliarani – si tratta di non stringere la speranza con braccia troppo corte”. Inventammo un “giornale parlato” d’informazione, il Pubbliphono, con il “ph” perché sembrasse più importante; poi, con 7 altoparlanti trovati in un magazzino e qualche rotolo di cavo, Gino Pagliarani alla politica, Glauco Cosmi alla cronaca, io allo sport, al costume e alla cultura, animammo l’arrivo, nientemeno, di un nuovo mondo. Il giornale “usciva” a mezzogiorno e alle 19. Si aprivano le finestre e in un paio di grandi piazze s’innalzava la sigla del quotidiano, Una notte sul Monte Calvo, presto sostituita da un valzer viennese. Nostro distributore era il vento, che favoriva o cancellava il giornale, sia che scendesse verso il mare o salisse sulle colline».
La Rai, come si accorse di lei?
«Il direttore di Radio Venezia, in viaggio verso Roma, si fermò a Rimini per riposarsi al caffè Forcellini. Quella domenica ero alle prese con il derby Ravenna-Rimini. Terminata la cronaca, il direttore segnalò a Roma uno studente che raccontava il calcio con una tonalità, a suo dire, inedita. Parlava allo straordinario capo delle Radiocronache, Vittorio Veltroni, padre di Walter. La Rai, non disposta a cedere alla richiesta di aumentare il compenso del celebre Nicolò Carosio, mi chiese se ero disposto a trasmettere, sperimentalmente, Bologna-Genova. Il mercoledì un telegramma mi invitava a Roma, via Asiago 10, “per comunicazioni”. La domenica raccontavo, in diretta, Roma-Fiorentina. Poco dopo, Veltroni mi segnalò a Cesare Zavattini, suggerendogli di ascoltarmi».
Cominciarono così le sue grandi «invenzioni». Montanelli la definì «principe del giornalismo televisivo». Ogni nuova impresa mieteva successi. Processo alla tappa rivoluzionò il racconto del Giro d’Italia...
«Il ricordo più vivo è Vito Taccone, detto “il camoscio d’Abruzzo”. Vinse cinque tappe di seguito con una spavalderia che non piaceva ai campioni. Alla terza vittoria mi confidò: “Lo sa perché vinco? Perché vado al traguardo come se andassi a fare una rapina. Io devo vincere finché mia madre non ha saldato un vecchio debito. Devo riuscirci, è più forte di tutto...”».
Con Nascita di una dittatura, Renzo de Felice si levò tanto di cappello. E Clausura si meritò il secondo Prix Italia...
«Rachele Mussolini mi confidò l’unico rimpianto: “Benito rifiutò l’invito degli americani perché andasse a fare il giornalista da loro. Si preoccupava per la mia gravidanza. Ci saremmo risparmiati tante cose!”. Amadeo Bordiga accettò la sola intervista della sua vita sperando che gli svelassi i segreti del Giro d’Italia, di cui era appassionatissimo».
La notte della Repubblica è il suo capolavoro indiscusso. Cosa la colpì di più?
«Quasi tutto. Ho bene in mente la risposta alla domanda: “Perché ha lasciato le Br?”. “Perché cominciavano a mancarci le parole”. Oppure: “Perché correvamo a vedere il Tg delle 20 per capire cosa avevamo fatto”. Franceschini mi confidò di aver voluto sfiorare Andreotti, in una via di Roma, “per sentire cosa si prova a toccare il potere”. A Bonisoli chiesi se aveva sparato in via Fani, quanti colpi e con quanta precisione. Cominciò visibilmente a smarrirsi, finché mi domandò se potevo risparmiare suo figlio, un ragazzo convinto dell’innocenza del padre: “Smentito dalla tv, rimarrebbe con la mente sconvolta per sempre”. Risposi che non avrebbe ascoltato le parole più gravi; sapevo di venir meno alla pienezza della regola, ma anche di mitigare un’indicibile sofferenza».
Alla Rai lei ha fatto tutto: da redattore a presidente. Raccontò anche le malefatte della Prima Repubblica.
«Per l’inchiesta C’era una volta la Prima Repubblica andai a intervistare Craxi, ad Hammamet. All’una e mezza di una notte molto calda, la malattia esigeva che vivesse attorniato da un esercito di bottiglie d’acqua. Convinto di aver parlato senza riserve se ne compiacque chiedendomi, con ironia: “Adesso sarai contento”. Voleva forse ripagarmi per una polemica nata tra noi in Rai. Gli dissi di no, pur sapendo che accettava con difficoltà contrasti del genere: l’intervista non aggiungeva granché, occorreva rifarla. Concluse: “Domattina!”. Ma dovevo ripartire. Si rivolse allora ai tecnici con un mezzo sorriso: “Si ricomincia”. Durante la replica lo vidi cercare le parole, aveva gli occhi umidi, la voce bassa, ma chiara, una tonalità dolente, ma risoluta. Finì così: “Fu quando mi accorsi che non decidevo più nulla, che tutto mi sfuggiva dalle mani…”. Ne nacque qualcosa più di un’intervista».
Chi ha sentito più vicino nella sua felice carriera, in cui ha ricevuto due lauree honoris causa e ha continuato a scrivere poesie per la collana mondadoriana “Lo Specchio”?
«Il mio amico più sorprendente, allegro, inquieto, Fellini, la sua dolce, infantile semplicità portata a limiti sorprendenti. Un giorno gli raccontai di aver fatto un sogno in un ospedale di Kiev, dopo un grave incidente a Chernobyl: attraversavo, camminando su una corda sospesa tra due palazzi, il centro di una piazza e a un certo punto venivo assalito dal pensiero di precipitare, sentendo arrivare la paura della morte. Mi interruppe dicendo: “Perché non hai sentito che quello potesse essere l’inizio, e non la fine, del viaggio?”. E aggiunse: “Non sei curioso di sapere come andrà a finire?”».
Come visse il distacco dal suo mondo?
«Tra me e la mia gente si era messa, all’improvviso, una distanza serena. Immaginavo mio padre e mia madre posare i loro gomiti sul davanzale della finestra e, tacendo, aspettare i miei ritorni. Poi mia madre mi mandava sul viso una carezza, e io ci mettevo sopra una mano per fermarla. Risento lo stupore e l’emozione provata scoprendo che nella città nativa, imperiale e dorata, era rimasto vivo, dopo tanto tempo, un saluto al quale risposi in un libro “... ma resto ancora in quel muro,/ un filo d’erba/spuntato da una crepa”. Ogni tanto mi capita di pensare che i muri si somiglino, e quel filo d’erba continua a farmi compagnia, a Rimini, da pietra a pietra».