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 2018  maggio 27 Domenica calendario

Lettera di Claudio Donat-Cattin

Caro direttore,
ho letto con stupore e profonda indignazione l’intervista al generale Gian Paolo Sechi pubblicata a pagina 19 del Corriere di ieri. Ritengo indegno che il generale abbia potuto affermare che «forse Marco fu l’unico della famiglia Donat-Cattin a non essere terrorista». Una frase che colpisce e diffama chi ha pagato un prezzo altissimo al dramma di un familiare terrorista, unito alla consapevolezza delle tragedie e del dolore che i suoi comportamenti hanno generato.
L’intervista è infarcita poi di altre menzogne che colpiscono mia madre e mio padre che, purtroppo, non possono più difendersi. Secondo il generale infatti, mia madre, «mentre il figlio era in clandestinità, gli portava ogni settimana il cambio della biancheria». Mia madre Amelia per sette anni e mezzo ha invece portato, in carcere e non in clandestinità, la biancheria a suo figlio. Mio padre è morto dopo un’operazione al cuore, per una malattia frutto di quei drammatici avvenimenti. Affermare, parlando di mio fratello Marco, che ci si sarebbe aspettati «che suo padre Carlo, all’epoca ministro dell’Industria, lo facesse arrestare, ma così non fu» – come fa il generale nell’intervista – non solo è assurdo, ma risponde a disegni e manovre che al tempo portarono mio padre a dimettersi da vicesegretario della Dc, uscendo per alcuni anni dalla vita politica attiva. Potrei aggiungere molte altre considerazioni per raccontare quanto è stato duramente pagato dai miei genitori e da tutta la famiglia Donat-Cattin per quella tragica vicenda, ma si tratta di fatti e sentimenti che fanno parte della sfera privata.
Il titolo e le affermazioni contenute nell’intervista non escludono comunque il ricorso alle vie legali per tutelare una famiglia che si appresta a ricordare il centenario di Carlo Donat-Cattin, uomo di Stato e leader dc che ha servito, con rigore, la Repubblica in difesa delle classi più umili.