Corriere della Sera, 27 maggio 2018
A Dublino la Chiesa ha perso autorevolezza per gli scandali pedofili
I manifesti che hanno tappezzato per qualche settimana i muri delle città e dei borghi della Repubblica irlandese non erano troppo diversi da quelli che hanno coperto nel giugno del 2016 i muri del Regno Unito. Anche il governo di Dublino chiedeva ai suoi elettori, semplicemente, un sì o un no. Il sì avrebbe cancellato un emendamento della Costituzione, adottato nel 1983, che impediva l’interruzione di gravidanza e scolpiva quel diniego nella carta costituzionale. Il no conservava il divieto. Raccontata in questi termini, la vicenda sembrerebbe soltanto una nuova vittoria dell’elettorato femminile in uno dei pochi Paesi europei in cui l’aborto era ancora proibito. La situazione in realtà è più complicata.
Occorre ricordare, in primo luogo, che la Chiesa cattolica ha in Irlanda uno statuto alquanto diverso da quello di cui gode nei Paesi dove la religione cattolica è maggioritaria. Qui la Chiesa non è soltanto un patrimonio di credenze e ricorrenze che scandiscono i tempi della vita quotidiana. È una parte inseparabile della identità nazionale, è il fattore che ha maggiormente aiutato gli irlandesi a distinguersi dal grande Stato della porta accanto. Non è soltanto una fede; è anche una patria. Ma questo retaggio storico è stato in parte offuscato negli scorsi anni. La Chiesa ha perduto una parte importante della sua autorità e credibilità. Molti irlandesi non avrebbero votato sì, probabilmente, se gli abusi in alcuni istituti per bambini abbandonati non avessero lasciato una macchia sul volto della istituzione.
Non è tutto. Nel 1983, i severi guardiani della fede ricorsero all’emendamento costituzionale perché temevano che nel clima sociale di una Europa sempre più «permissiva e femminista» sarebbe stato difficile impedire al Parlamento l’approvazione di una legge ordinaria per la legalizzazione dell’aborto. Forse che qualche anno prima, dopo alcune sentenze, lo stesso Parlamento, non aveva approvato una legge che liberalizzava il commercio degli anticoncezionali?
Ma dopo l’approvazione dell’Ottavo emendamento il Parlamento credette di potere aggiustare la sua linea con una concessione pragmatica. Le donne non potevano abortire, ma potevano documentarsi sui metodi e sui luoghi in cui la maternità poteva essere programmata in «altri modi». Non era comunque possibile ignorare che molte donne irlandesi ricorrevano all’aborto con un breve viaggio, dal mattino alla sera, in un ospedale del Regno Unito. Come l’Irish Times, uno dei migliori giornali del Paese, ha lasciato intendere più volte negli scorsi anni, il Parlamento di Dublino aveva inventato un sistema ibrido e ipocrita. Vietava l’aborto in patria, ma lo permetteva, di fatto, all’estero.
Lungo la strada il problema si è ulteriormente complicato. L’Ottavo emendamento proibiva l’aborto, ma faceva una eccezione nei casi in cui il medico avesse dovuto decidere fra la morte della madre e quello del figlio. La scelta può essere in molti casi terribilmente difficile e l’episodio che suscitò maggiore scandalo fu quello di una ragazza tredicenne a cui non fu permesso di abortire. La ragazza morì e la sua vicenda ha avuto probabilmente una influenza sul esito dell’ultimo voto.
Esiste un’altra ragione per cui la maggioranza degli irlandesi ha votato sì. Il viaggio a Londra o in altre città del Regno Unito era vissuto da molte donne come una umiliazione. Dopo essersi battute con i loro uomini per avere una patria, erano costrette dalla loro Costituzione ad abortire in un ospedale del loro vecchio padrone di casa.