Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  febbraio 09 Venerdì calendario

Come sono buone le “agnulesse” del Friuli peccato che esistano solo nei palindromi)

Cosa sono le agnulesse? Beh, anche se non ne abbiamo mai sentito parlare, possiamo immaginarlo: delle specie di agnolotti friulani con ricotta ed erbette, o qualcosa di simile, condite con cacio e burro; da quelle parti le «agnolesse» sono le donne angeliche, e il cuoco, ai fornelli, chissà a chi pensava mentre riempiva quelle taschine di farina da servire agli ospiti in sala. Sbaglieremmo: le «agnulesse» non costituiscono un cibo; sono soltanto una parola, e precisamente il palindromo di «esselunga». Magari, se qualche esperto di marketing se ne accorgesse, un giorno le troveremo in busta, bell’e pronte, fra gli espositori del noto supermercato.  
Destino opposto è quello del Carnevale, festa che si chiama così perché, nella tradizione, in quei giorni (detti appunto «grassi») la carne aveva un particolare valore; ma oggi che vale pochissimo, economicamente e socialmente, che farne di questo termine e della goduria supposta indicare? Si pensi invece ad «aperitivo», rituale tanto diffuso quanto apparentemente informale: è anagramma di «operativi», cosa che forse nasconde il suo destino affannoso che scivola, se non seguito da debita cena, nell’angoscia solitaria dell’incompiutezza. E che dire degli spaghetti «alla puttanesca», del «marmolardo» (di colonnata), dell’inflazione del prefisso «bio» (verso dei pulcini?) o della «pancetta» che procura la nascente adipe dei nostri fianchi? Insomma, il cibo è tutto un «blablà» (onomatopea), e non sarà un caso che la forza inconscia del linguaggio – là dove il gioco di parole svela accostamenti misteriosi e insieme evidenti – arriva fino alle soglie dell’edibile: «immangiabile» è anagramma di «immaginabile». 
Ecco, volendo divertirsi a costruire un lessico immaginario del cibo, come fa adesso Alberto Capatti in questo suo Mangiapensieri (che non è il gadget per bambini con la bocca a cerniera, ma, appunto, la messa in ordine alfabetico di notazioni variegate circa usi e costumi alimentari dell’epoca che ci contraddistingue), viene spontanea la triangolazione con la lingua. Fra il mangiare e il pensare, il consumare e il sognare, c’è di mezzo, inevitabilmente, il parlare, ovvero la lingua in tutte le sue forme e manifestazioni, da quella lessicale a quella grammaticale, da quella semantica a quella retorica, passando, lo si è visto, per quella enigmistica. Capatti, fra i maggiori esperti di storia dell’alimentazione e della cucina del nostro paese, sa che nulla è più immaginario del cibo e di tutto ciò che lo circonda (dalla produzione al consumo, della distribuzione allo smaltimento dei rifiuti, dal gusto alla tavola), e che il linguaggio, in questo, la fa da padrone. Non solo perché non si fa altro che parlare di cibo, dovunque e comunque, ma anche e soprattutto perché il cibo è a sua volta, oltre che nutrimento e piacere, linguaggio a sua volta: uno specchio, debitamente deformato e deformante, della nostra identità, individuale come collettiva. Certo, ci sono problemi agroalimentari e nutrizionali, medici e dietetici, economici e sociali, ma nel cibo vale soprattutto la dimensione, al tempo stesso ironica e onirica, del gioco e della fantasia, dell’aporia e dell’assurdo. Se siamo ciò che mangiamo, inutile aspettarsi dal cibo coerenza e razionalità: mangiare è capriccio e delirio, lusso e lussuria, come anche spreco e digiuno, contraddizione e nonsenso. Mangiare è «recitare a buffet». E in cucina «esiste un solo metodo per non sbagliare: togliersi dalla testa che il risultato deve esser perfetto, mentre esperienza e istinto vanno di concerto».  Prendiamo il caso del «benessere», parola apparentemente cartesiana, chiara e distinta: ma cambia parecchio di senso se usata per l’uomo o per l’animale. Nel primo caso è l’esito di un soddisfacimento, per esempio, gastronomico, nel secondo è lo strumento per consentire il primo. Cerchiamo nel benessere di bovini, ovini e suini l’espediente necessario per mangiarli meglio, e più la vita della mucca o del maiale non è, diciamo così, una vita da cani (chez nous non edibili), più li degusteremo con soddisfazione. Il loro benessere è funzione del nostro. Dove la parola tabù che fa da trait d’union, e che viene sistematicamente rimossa, è «macello».  
 
Fra l’altro, l’espressione «mangiare da cani» può a sua volta mutare di significato: non designa più un ipotetico ricettario per mangiar male ma il menu di uno dei tanti dog restaurants che sorgono come funghi (velenosi?) in mezzo mondo sedicente civilizzato, con tanto di ossi al posto delle famigerate stelle Michelin. Viviamo, si sa, in un mondo alla rovescia, dove la «cucina a domicilio» non è quella che si fa in casa ma il cibo che ci arriva già cucinato chissà da dove, di modo che possiamo ormai eliminare dai nostri appartamenti fuochi e frigoriferi. Per questo, osserva Capatti, «cucinare è resistere»: continuare a immaginare con felice, troppo umana approssimazione.