La Stampa, 13 marzo 2018
Quel conflitto irrisolto in Ucraina spartiacque tra Europa e Cremlino
La guerra delle spie tra Londra e Mosca è uscita definitivamente dalle pagine della spy story in cui sembrava essere stata scritta nei giorni scorsi per entrare in quelle più aspre delle cronaca politica. E se è vero che Theresa May sta pianificando una risposta durissima, che include, nel lungo termine, l’incremento della presenza di soldati britannici e aerei da combattimento lungo i confini dell’Europa dell’Est, l’espulsione di diplomatici russi, e una dichiarazione di condanna congiunta con alleati occidentali, tra cui il presidente francese Emmanuel Macron e la Cancelliera tedesca Angela Merkel, è evidente che la questione delle relazioni anglo-russe rischia di trasformarsi in uno spinoso dossier per tutta l’Europa. Dall’inizio della crisi con l’Ucraina a oggi, le istanze europee e quelle russe non sembrano destinate a rimettersi sui binari della normalizzazione, ma procedere per scossoni, anzi peggio, di deragliamento in deragliamento. E con la scontata riconferma di Vladimir Putin alla presidenza della Federazione Russa, domenica prossima, il rischio che la crisi si trasformi in una sorta di conflitto congelato permanente è piuttosto alto.
Non ha aiutato neanche l’impegno del Cremlino sul fronte siriano, che al momento vede una totale esclusione dell’Europa dai tavoli dedicati alla ricostruzione, i cui posti sono invece occupati da Turchia e Iran, oltre che dalla stessa Russia. Così come nefasto è stato l’impatto delle influenze – vere o presunte poco importa di fronte all’evidenza percepita – sulle campagne elettorali negli Stati Uniti e nei diversi Paesi degli Stati membri, Italia compresa.
La situazione è tale che oggi il cumulo di fraintendimenti accumulati in questi ultimi anni rende inimmaginabile un ritorno ai tempi del «reset» inaugurato nella stagione di Obama e Medvedev, come se quegli intenti, che prevedevano importanti avanzamenti sul fronte del disarmo e della cooperazione economica, fossero definitivamente da archiviare come una parentesi retorica, priva di contenuti praticabili. La tentazione del ritorno ai codici della guerra fredda ha preso il sopravvento, e oggi il mondo si ritrova molto più comodamente in quel rassicurante schema, piuttosto che tentare di adattarsi alle richieste del multilateralismo e delle sfide della globalizzazione, in cui Russia e Europa, in realtà, condividerebbero un destino piuttosto simile.
Mai il livello di scambi tra funzionari e rappresentanti delle diverse istituzioni – europee e russe – aveva toccato un livello così basso. Persino il dialogo interreligioso, che con Benedetto XVI sembrava all’alba di un nuovo rinascimento, si è ripiegato su se stesso. E che l’offensiva più dura parta proprio dalla Gran Bretagna, che conta il 60 per cento di studenti russi iscritti al college, e travasi da aziende russe verso la city nell’ordine di miliardi, è il segno di quanto le cose possano ancora peggiorare.
Da dove può venire oggi una soluzione? Probabilmente là da dove tutto è cominciato, ovvero dall’Ucraina. Finché non si andrà alla radice di quel gigantesco misunderstanding, in cui Europa e Russia hanno dato il peggio di sé, ripristinando i codici comunicativi del Grande Freddo, e ostinandosi a non volerli rinnovare – ancora oggi, lo stallo in cui sono caduti gli accordi di Minsk dovrebbe far riflettere – ogni reset è improponibile. Per avviare un dialogo su basi nuove ci vorrebbero però leadership fresche, capaci di modificare i linguaggi e lasciarsi alle spalle i fardelli pesanti del passato. E se la riconferma di Vladimir Putin alla presidenza della Russia non va certo nella direzione di un rinnovamento, per l’Europa non è ancora detta l’ultima parola.